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Sull’Isola è tornato l’autunno e la temperatura è precipitata di diversi gradi. Il cielo ha una tonalità indefinita, gli alberi quasi spogli levano i rami secchi verso l’alto, come braccia a invocare aiuto. La campagna ha preso d’un tratto un aspetto un po’ lugubre, ma al contempo pittoresco.
Nonostante l’ora tarda, io e Silvia ce ne stiamo sedute sugli spalti del campo di atletica, coi colletti delle giacche identiche alzati a ripararci dal vento. Lei tiene fra le mani un thermos colmo di tisana bollente, io sorseggio una cioccolata in tazza – anche se non so che darei per un latte macchiato. Giù in pista, Marzio si allena senza posa: è concentrato, metodico, mi rammenta Milo in sala prove, tanto assorto in ciò che faceva da non considerare nient’altro. Ma il suo ricordo è come fiele, e non appena lo becco che fa capolino mi affretto a schiacciarlo sotto il tacco; senza Milo mi manca un braccio.
D’un tratto i lampioni si accendono tutt'intorno, creando ampie pozze di luce; e dopo l’ennesimo allungo Marzio decide che è ora di rientrare alla base. Corre verso di noi, Silvia gli lancia la felpa che custodisce con premura da due ore; gli sorride, poi si lascia scappare un microscopico sospiro. In silenzio, ci avviamo assieme verso la Domus - anche a piedi non dista molto dall’Edificio centrale e la strada da percorrere è bene illuminata… per ragioni di sicurezza, immagino.
Sperando di evitare il freddo pungente, scivoliamo via svelti come spettri, assorti nei nostri pensieri. Percorriamo tacitamente il sentiero di terra battuta che si snoda verso sud, ma quando arriviamo in prossimità della meta, senza alcun preavviso, Marzio ci sfida a batterlo sul tempo, lanciandosi in una corsa da campione con cui il nostro scatto ritardato fatica a competere.
I Riabilitatori, categoria in cui si annoverano anche Marzio e la sua partner Vittoria, vengono addestrati a operare in coppia. Sono giovani atletici dall’aspetto altero, perennemente vestiti di bianco, impossibili da confondere con la restante popolazione dell’Isola.
Non appena sbarcata al molo, ho notato le loro caratteristiche iridi slavate: sono allarmanti, di una tonalità sottile come vetro soffiato, duri pezzi di ghiaccio affissi su volti bellissimi. Abbinate a pupille poste in verticale - forse a ricordare la potenza dei felini - inquietano e attraggono l’interlocutore al tempo stesso. I loro occhi sembrano un atroce scherzo di natura - ma si vocifera che per ottenere questo curioso effetto ricorrano a lenti concepite ad hoc.
Pure la voce non ha alcunché di naturale: creata ad arte con un sofisticato dispositivo tecnologico, si irradia in onde metalliche che ricordano le vibrazioni emesse da un androide - così da bandire ogni residua sfumatura di umanità dai loro corpi perfetti.
Eppure, strano a dirsi, non provo orrore davanti a loro; anzi, li compatisco. L’alienazione cui si sottopongono è anch’essa una punizione: chissà se, mentre contemplano la propria maschera allo specchio, capita che non si riconoscano affatto. Chissà che, nel tempo, non abbiano smarrito una frazioncina di se stessi, un tassello impercettibile che ora stentano a ripescare nella vastità del nulla.
Occupati a rieducare gli ospiti, presiedono le attività, affiancati talvolta da medici e Ausiliari - figure incaricate del vettovagliamento, della manutenzione e della pulizia dei locali.
Se non sapessi con matematica certezza che ogni liaison amorosa è tassativamente proibita fra i membri del personale – per fugare eventuali dubbi basta consultare il Regolamento, onnipresente su tutti i piani dell’Edificio e della Domus - mi convincerei che tra Marzio e Vittoria sia nato del tenero: collaborano in perfetta sintonia, sono somiglianti come anime gemelle, non li si sente mai bisticciare. Dopo il pasto serale li ho sorpresi spesso a parlottare in tono sommesso, e in più di un’occasione la ragazza teneva le mani di lui racchiuse fra le sue. A me la loro intesa pare perfetta: sono parti differenti dello stesso puzzle, due piccole tessere che si incastrano al millimetro.
Conclusa - dopo secoli - la detenzione in Struttura, chiunque entra nelle nostre schiere viene collocato presso l’Edificio. Si tratta di un ambiente smisurato, concepito per accogliere una comunità di oltre duecento persone: è provvisto di camerate, cucine e sala mensa, servizi e infermeria. C’è persino un auditorium, con le sue gradinate, il palco rialzato e sedie comode. Anche la pista all’aperto su cui si allenava Marzio appartiene a questo complesso e può essere sfruttata dal personale e dagli ospiti secondo gradimento - la divisione in Classi è un lontano ricordo quaggiù, e il programma per il reintegro prevede attività motorie in abbondanza. Qualcuno va dicendo che a breve costruiranno una piscina in muratura, ma non sono tanto sprovveduta da volerci credere: i pomeriggi sono lunghi da passare e la fuga di notizie inattendibili, messe in giro a danno dei creduloni, non è un evento così inusuale.
Alla scadenza del periodo iniziale, che varia dai dodici ai diciotto mesi, gli ospiti vengono trasferiti coi loro Riabilitatori nell’area delle Domus - costruzioni su scala decisamente ridotta, progettate per permetterci uno stile di vita più intimo e familiare.
Gli ambienti, benché raccolti, garantiscono finalmente un po’ di privacy: disponiamo di stanze singole e di una certa autonomia, e da principio questa grande fiducia mi sbalordiva. Quando salivo in camera mi precipitavo a spalancare la finestra, assaporando l’assenza delle sbarre in ferro battuto; respiravo a fondo, provando un potente senso di libertà. Ma poi ho riflettuto meglio sulle politiche del luogo e il mio stupore è diminuito sensibilmente: questo progetto esiste per rieducarci, è ovvio che contempli esperienze di vita indipendente. In più qualsiasi tentativo di fuga sarebbe ridicolo: con che obiettivo, raggiungere il continente a nuoto?
Sia come sia, gli Ausiliari prendono le loro precauzioni prima di coricarsi: se pur maneggiamo coltelli e forchette nelle ore diurne – sotto attenta supervisione – scendere dopo il buio nelle sale comuni non è consentito. Se ci avventurassimo da basso dopo le dieci, sarebbe solo per scoprire che le armi improprie sono state accuratamente chiuse a chiave.
E comunque lasciare le nostre stanze è pressoché inutile. Ogni camera è corredata da una toilette privata, lo sportello del comodino accanto al letto è quotidianamente rifornito di tisana e biscotti: qualunque visita notturna alla dispensa sarebbe superflua.
Nessuno sa cosa sarà di noi a riabilitazione avvenuta: eccettuata la vecchia Faith, che appartiene alla comunità dell’Isola da tempo immemore, finiremo tutti per andarcene. Ma la nostra destinazione ultima rimane sconosciuta. Ogni sei mesi i più anziani fra noi vengono portati via a bordo di grosse macchine nere, per essere tradotti non si sa dove; al loro posto subentrano i nuovi arrivi, prelevati direttamente dalla Struttura.
Spesso mi sono domandata se il territorio su cui sorge il nostro insediamento appaia esattamente come lo descrivono, un rigoglioso pezzo di terra emersa nel bel mezzo dell’Atlantico. Al nostro arrivo eravamo drogati, privi di sensi, nessuno di noi ha avuto percezione del tragitto o del tempo che ci è voluto per compierlo. Siamo a digiuno di qualunque coordinata geografica e dal punto in cui alloggiamo la presunta massa d’acqua rimane invisibile.
Perciò ripeto: siamo sicuri che l’Isola sia veramente un’isola? La sua estensione non è valutabile, perché non disponiamo di mezzi per spostarci: chi ci ha portato fin qui è ripartito subito dopo, e le camionette che si occupano dei viveri fanno dietro front appena scaricato il cibo.
Non so da dove provengano le auto usate per i rifornimenti, ma è chiaro che esiste un altro agglomerato a pochi chilometri dal nostro centro; magari non è neppure distante, ma mi manca il fegato di cercarlo, di avventurarmi da sola nella boscaglia. Anche l’idea di perlustrare i paraggi a caccia di sbocchi sulla costa è stata accantonata da un pezzo. Specialmente dopo il trasloco alla Domus ho troppo da perdere: se mi beccassero, verrei rispedita dritta dritta all’Edificio - e certo non intendo correre un simile rischio.
Però le perplessità rimangono: c’è davvero un vasto oceano azzurro-blu a circondarci? Oppure ci riempiono la testa di fandonie, per scoraggiare improbabili rivolte e tentativi di evasione?
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