sabato 7 giugno 2025

8. CAPITOLO TERZO

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Il sabato è giorno di visite alla Residenza dove alloggia mio padre, così decido di andarlo a trovare. Data la sua condizione e il continuo bisogno di assistenza, ho chiesto e ottenuto che venisse spostato in Zona Quattro – cliniche e case di cura sono equamente distribuite sull’intero territorio. L’edificio in cui risiede si trova fuori dal centro urbano, in una vasta area immersa nel verde; chissà, magari durante il progetto di costruzione avranno supposto che l’atmosfera bucolica giovasse alla salute e all’umore dei pazienti.  
Quando entro nella camera che condivide con un altro ospite, papà è già sistemato sulla sua poltrona, col vassoio del pranzo pronto sotto il naso. Gli orari dei pasti qua dentro non hanno nulla a che vedere con quelli del mondo di fuori, ma una volta tanto sono contenta che sia così; il quadretto che mi si para davanti è tranquillo e in genere papà è di buon umore quando ha la pancia piena. Dal saluto che mi rivolge percepisco il solito, profondo attaccamento, ma i suoi modi sono al contempo sbrigativi; mio padre non è mai stato un campione di tenerezza, e sbagliavo a sperare che gli anni e la malattia lo avrebbero ammorbidito. Se però c’è una cosa che è mutata nell’ultimo periodo è la sua loquacità: non era mai stato un chiacchierone, ma il trasferimento deve avergli sciolto la lingua. Ancora intento a consumare il pranzo, parte a raccontarmi innumerevoli e nebulosi episodi del passato – la cui protagonista è sempre mia madre. Io mi accomodo vicino alla finestra e lo ascolto con filiale deferenza, fingendo di non aver mai udito prima tali intricate vicissitudini - e invitandolo, di quando in quando, a svuotare il piatto o a bere un sorso d’acqua. Lui dapprima borbotta, poi finisce per seguire docilmente le mie indicazioni. 
I nostri incontri non durano mai più di un paio d’ore, ma prima di andarmene desidero vagliare coi sanitari qualche questione pratica: come va il trattamento? Ha senso continuare la fisioterapia?
Per trovare risposta a tali quesiti suono il campanello rosso appeso al braccio metallico sopra il letto. Quasi immediatamente un giovane sulla trentina si materializza sulla porta, a riprova della massima efficienza che si esige nel nostro quartiere. Mentre condivido con lui le mie perplessità, mio padre attacca una delle sue solite litanie, prima a bassissima voce, come fosse un ronzio, poi con tono sempre più alto: “Sollevati e risplendi, sollevati e risplendi, sollevati e risplendi…”
Basita, mi volto verso di lui, tentando di comprenderne il soliloquio; ma l’infermiere si affretta a minimizzare, senza prestare attenzione alcuna al significato delle parole: “Non ci faccia caso signorina, è solo una conseguenza della patologia” illustra. Poi mi pilota fuori, in corridoio, dove riprendiamo il nostro discorso; ma quando mi riaffaccio alla stanza di mio padre, sempre sconcertata da quel mantra, scopro che si è appisolato sulla poltrona e sta russando della grossa.

I resti della cena sparsi sul tavolo dell’ampia terrazza, le luci soffuse nella speranza di scorgere meglio gli astri, io e Milo ce ne stiamo col naso appeso all’insù, intenti a individuare le costellazioni.
Semisdraiati sul dondolo, chiacchieriamo amabilmente della giornata appena sfumata: lui ha speso l’intero pomeriggio in sala prove e appare molto compiaciuto della performance, io invece racconto di mio padre, di come la sua demenza stia ovviamente prendendo il sopravvento, dell’avvertimento dei sanitari a non dar peso alle sue crescenti farneticazioni. Tralascio volutamente i dettagli, anche perché, col trascorrere delle ore, mi sono quasi convinta di aver sognato quella frase, mormorata a ripetizione in modalità monocorde: sollevati e risplendi, sollevati e risplendi, sollevati e risplendi…
Un brivido mi corre lungo la schiena e Milo, pensandomi infreddolita, mi passa un braccio amorevole sopra le spalle, accarezzandomi e stringendomi forte a sé.

La settimana seguente si apre rigida e ventosa, perciò recupero una sciarpa a trama fitta dal cassetto prima di uscire dall’appartamento. Mentre finisco di prepararmi, il bip del cellulare annuncia l’arrivo di un nuovo messaggio: è Daria, mi conferma che l’appuntamento con il Maestro è fissato per le nove in un bar del centro dove potremo farci un’idea di come impostare il lavoro.
Salgo in macchina in preda a uno strano nervosismo: saprò svolgere al meglio il compito affidatomi? Sono una professionista, esigo il massimo da me stessa. Ma da qualche parte, sotto la preoccupazione per le mie capacità, si agita un altro genere di sovreccitazione: che sia proprio il Maestro l’artista sconosciuto di cui parlava la veggente? Le foto che ho osservato tanto minuziosamente negli ultimi due giorni farebbero pensare di no; su quel vecchio libro pareva tutto fuorché alto, ed esibiva le rughe che ricordo in mio nonno. Ma da una pagina non si può certo giudicare, perciò non sto nella pelle al pensiero di conoscerlo.
Quando arrivo alla caffetteria, però, scopro di non essermi sbagliata. Quest’uomo è basso, appesantito dalle molte cene offerte in suo onore; anziano e ben vestito, sembra più un docente di ateneo che un maestro di pittura astratta. L’aspetto è serio, ma l’espressione è bonaria. Ordiniamo il caffè, iniziamo a parlare, la conversazione procede senza inciampi; in un lampo è già mezzogiorno passato, e noi ci alziamo per congedarci. 
“L’aspetto stasera nella mia galleria” dice il Maestro, porgendomi un tesserino che vale l’entrata nella Zona del suo Rango. “Mi chiami se le dovessero fare difficoltà. Ma non ci saranno intoppi.” 
Si allontana, usando l’ombrello a mo’ di bastone, io lo seguo fino a che posso con lo sguardo; poi lo perdo in fondo al viale. Mi appoggio allo schienale della poltrona e chiamo il cameriere per un altro caffè, anche se è quasi ora di pranzo.
Decisamente il mio pittore non è lui, ma non posso dirmi delusa dall’incontro. Questo tizio sa rendere palpabile il piacere che prova nello stendere il colore, nel trasformare il suo io più intimo in una traccia visibile. Il suo racconto è una rivelazione dalla forza travolgente, ne sento il richiamo, che conferma nel mio cuore il bisogno di creare in modo diverso dalla frase scritta. 
Milo ha ragione: devo stare in guardia. In questo mondo sbagliato non avrei modo di difendermi da chi sostiene che una parte della mia anima debba continuare a restarsene spenta.



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33. LA PAROLA ALL'AUTORE

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