mercoledì 20 agosto 2025

38. CAPITOLO DICIASSETTESIMO

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Ogni mattina, alle sei e trenta, la campana risuona in tutte le stanze del primo e del secondo piano, intimandoci di scendere a colazione prima di inaugurare una nuova giornata di pratiche correzionali. 
Così mi alzo dal letto e infilo la vestaglia grigio topo ricevuta al mio arrivo: il corredo degli ospiti ha tinte smunte e tristi, le fantasie chiassose sono bandite quassù - il che, se provieni dal Rango Quattro, ti fa sentire a tuo agio: è quasi un conforto, è quasi essere a casa.
Vestita di tutto punto, mi presento in soggiorno al banco delle vivande: il menù è facile da prevedere, cereali e latte è tutto quel che ci assegnano. Quanto al tè e al caffè, ne ho dimenticato perfino l’aroma: le bevande stimolanti sono vietate, così come lo sono gli alcolici. Ciò che può rendere eccitabili è interdetto a chi proviene dalla Struttura - ma consentito, con moderazione, a chi siede ai posti di comando.
Sei giorni su sette seguiamo questa immutabile routine, come obbedienti formichine all’interno della colonia; unica eccezione sul calendario è la domenica, momento dedicato alle attività rituali. 
Per tutta la vita che ho passato in Zona Quattro - e per tutti i mesi buttati in Struttura - la sottomissione ai vertici del potere era una condizione scontata; per ottenerla non erano previsti giuramenti solenni né mezzi coercitivi. Ma qui sull’Isola, con una comunità tanto nutrita in fase di riscatto, la promessa di lealtà non è più lasciata al caso. 
Ed è proprio per rafforzare il senso di appartenenza che entra in scena l’Auditorium - quella specie di sala conferenze, pomposamente denominata Agorà, che occupa in toto l’ultimo piano dell’Edificio. L'ambiente è progettato per ricevere la nostra famigliola al gran completo, specialmente nei periodi freddi, quando le temperature sono tanto rigide da non permettere adunate esterne. Solo con l’avanzare della primavera le sessioni collettive si spostano all’aperto, collocandosi di preferenza sul pratone dietro le Domus.
L’Agorà ospita uno schermo gigante per la proiezione di slide o filmati e un podio (o dovrei dire un pulpito?) dal quale ogni domenica i Riabilitatori declamano, con le loro voci altisonanti e robotiche, sermoni e regolamenti ufficiali. C’è anche una postazione ulteriore - provvista di microfono, ma collocata in basso per ragioni gerarchiche - dalla quale prendiamo la parola noi, gli ultimi, per una buona dose di autocritica. Però non descriviamo mai il reato che ci ha trasformati in ignobili reclusi; dobbiamo semplicemente riconoscere a pieni polmoni la gravità dei nostri errori. 
E, soprattutto, fare ammenda per esserci macchiati della colpa più grande: aver tentato di agire su iniziativa personale.
Mentre annaffio la mia ciotola di crusca col latte fresco, Silvia si accomoda sulla sedia di fronte alla mia. Sbadiglia, gli occhi ancora cerchiati dal sonno, e con una mimica un po’ goffa mi supplica di riempire una tazza anche per lei. Io eseguo, torno al mio posto e le porgo un coccio che reca la scritta Faccio parte della famiglia - parole stampigliate ovunque su utensili e accessori, tese a sradicare in via definitiva quella  fragile individualità che potremmo ancora, pericolosamente, conservare nonostante tutto. Perché quando saremo integrati alla perfezione, non riusciremo più a guardare fuori; sprofondati nell'abisso, percepiremo solo il nero che ci avvolge.
Silvia mi ringrazia con calore e mi rivolge un sorriso zuccheroso come marzapane. Anche se in generale è affabile e premurosa, sa diventare adulatrice fino all’eccesso, specie con Marzio e la collega Vittoria; è subito pronta a compiacerli, prodiga di sciocchi interventi non richiesti. È ambigua, e per il momento preferisco sospendere ogni giudizio sul suo conto - sebbene viva con lei da oltre due anni. 
Vestiti di tutto punto, un’ora dopo colazione, ci raggruppiamo all'ingresso, pronti per recarci in sartoria - un prefabbricato situato a metà strada fra l’Edificio e l’area delle Domus. Alla sola idea, alcuni dei miei compagni fanno smorfie di raccapriccio; non mi è chiaro dove vivessero prima dell’ingresso in Struttura - lo scambio di informazioni simili non è permesso - ma certo non si trovavano in Classe Otto. Io mi sforzo di mantenere un’espressione neutra, quando in realtà nascondo uno stato d’animo simile al loro. Sebbene i Riabilitatori non facciano che rassicurarci con slogan del tipo “l’apprendimento è sacro in ogni fase della vita”, cimentarsi con la manualità è una vera e propria sfida. In precedenza non ho mai dovuto tenere un ago in mano, né appendere un chiodo alla parete - o meglio, non ho mai potuto farlo e il risultato è che adesso tutto sembra un ostacolo, una cima insormontabile. Soltanto ai fornelli ho imparato a cavarmela discretamente, pur non potendomi ritenere uno chef stellato – a casa era Milo il vero esperto, ma per evitare che i recettori si attivino e il dolore esploda, caccio svelta il suo ricordo in un angolino perduto del mio cuore. 
Arrivate alla sartoria, io e Silvia prendiamo posto in seconda fila dietro a due ragazzoni dai bicipiti muscolosi, che catturano totalmente l’attenzione della mia compagna: “Non serve essere scienziati per capirlo, questi due provengono dal quartiere degli atleti; chissà quanta energia da sfogare hanno in corpo…” bisbiglia maliziosa, ma subito dopo Marzio compare in cattedra e il chiacchiericcio nel laboratorio cessa di botto. 
I frivoli apprezzamenti di Silvia non mi toccano, però mi spingono a domandarmi come mai sia tollerata tanta promiscuità. È parte del piano di recupero cui siamo sottoposti? È per testare il nostro rinnovato grado di disciplina? Naturalmente ogni contatto fra i due sessi è destinato a rimanere amichevole, ma se anche i flirt fossero ammessi non credo che a Silvia interesserebbero realmente gli approcci dei due ex culturisti al primo banco. Da tempo nutro la convinzione che nessuno le piaccia più di Marzio, a dispetto della spersonalizzazione subita; Marzio, così enigmatico e stuzzicante nel suo sventurato ruolo di antagonista. 







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