sabato 7 giugno 2025

10. CAPITOLO QUARTO

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Sono giorni che frequento la galleria d’arte di via dei Salici, in un quartiere in cui un mese fa non sarei stata ammessa. Questa Zona, per me, non solo era interdetta: era proprio inesistente, non mi accorgevo neppure che ci fosse. È tutto molto colorato, il contrasto coi nostri palazzi sobri non potrebbe risultare più netto, ogni superficie è coperta da foto o murales, mosaici e ritratti.
Anche l’abbigliamento delle persone è differente, tutti sfoggiano strane tinte ed elaborate acconciature, roba che nel mio rango passerebbe per stravagante, se non addirittura ridicola; nessuno qui indossa il beige o il crema. Tutto questo ovviamente non vale per il Maestro, che, dato il privilegio del successo, può permettersi tagli sartoriali di suo gusto. Trascorrere i pomeriggi con lui mi ha permesso di imparare molte cose, nozioni e trucchi che non avrei appreso altrove, un sapere antico che da generazioni si tramanda all’interno di questa Classe e che sa rinnovarsi per mantenersi vivo e continuare a crescere.
Ho visto le opere del Maestro, i lavori di suo padre - pittore prima di lui - quelli dei suoi studenti. In prevalenza quest’arte è astratta, materica, percorre e coinvolge ogni corridoio della mente. C’è anche una parte minore, dedicata al figurativo, ma è figurativo come non lo avevo mai visto. Trasmette angoscia, le ombre scure di chi vede la realtà com’è ma non riesce ad accettarla. Di chi non può cambiarla. Illuminato in un angolo da una luce soffusa, c’è un paesaggio che mi è rimasto dentro in maniera particolare. Si chiama “Oltre la superficie” e io, pur non comprendendo il titolo, intuisco subito che rappresenta via dei Salici, una via dei Salici distorta, priva della sua spumeggiante vitalità. I rami degli alberi sono un bruno intrico di artigli, la figura al centro della strada avanza disperata verso il nulla, l’opacità domina; solo l’asfalto brilla, ma ha un che di sinistro, d’inquietante. Si sente quasi l’urlo dell’autore intrappolato nella tela.
Mi hanno pescata ripetutamente a contemplare il quadro, da principio temevo di subire dei rimproveri. Invece no, il Maestro si limita a sorridere e studiarmi di sottecchi.
Qualcun altro osserva con cura le mie mosse all’interno dell’atelier, il suo sguardo mi segue costante da dietro gli occhiali, ben attento a non incrociare il mio. Nel momento in cui mi è stato presentato, tutto il mio essere ha esultato: eccolo! mi sono detta, un uomo alto che lavora da artista. Ma l’ottimismo è durato meno di un secondo. Jan è un semplice aiuto tuttofare: non dipinge, non può neanche tenere un pennello in mano, perché afferente alla Classe sbagliata.
Il suo compito si esaurisce mantenendo pulito lo studio, gli strumenti, scarrozzando il Maestro da un capo all’altro della loro zona - per motivi professionali, i Ranghi Ausiliari possono guidare veicoli anche superiori al mio, e vengono assegnati alle Zone in cui si ha bisogno di loro. Autisti, baristi, tecnici e camerieri si trovano ovunque, proprio per ottemperare a qualsiasi necessità.
In lui c’è qualcosa che mi incuriosisce, a partire dal nome: Janus è il dio degli inizi, dei passaggi, è una porta sul cambiamento - simbolo perfetto di transizione. La sua vicinanza pizzica le corde più nascoste del mio essere. Purtroppo non mostra particolare simpatia nei miei confronti e, quale che sia la sua storia, dubito davvero che vorrà confidarla a me.

Dopo una pesante giornata di lavoro, il tocco di Milo alla base del collo è potente come una magia; ha un talento innato per i massaggi, ma quando glielo faccio notare lui mi ridimensiona: “Funziona solo con te, perché siamo legati a filo doppio.”
Gli accarezzo il viso. È un buon momento fra noi, l’aria è fresca e pulita tutt’intorno. Mi sento in pace con lui e con la vita, non desidero discussioni, ma oggi lo vedo talmente ben disposto da decidere di rischiare; parto a descrivere con fervore le mie impressioni sullo studio d’arte e poi sull’intero quartiere. Milo mi ascolta con attenzione e al termine del monologo gioca coi miei capelli, lieve: “Perciò, dopotutto, io e te diciamo la stessa cosa: il Sistema funziona, perché ci permette di esprimerci in ciò che ci appartiene. Non solo: siamo in grado di sostentarci col nostro lavoro. Credi che ovunque artisti e poeti siano ceti agiati e stimati?” mi chiede.
Io annuisco: in tanti paesi moriremmo di fame, il nostro mestiere sarebbe considerato inutile; se la mette in questi termini, devo riconoscere che ha ragione da vendere. 
“Ce la caviamo alla grande” conclude.
Già, mi dico, se obbediamo agli ordini senza ribattere. Ma questo pensiero lo tengo per me. Non voglio rovinare la piacevole atmosfera, e in fondo sono d’accordo con Milo: mi mantengo grazie a un mestiere rispettato e invidiabile, che cos’ho mai da lamentarmi tanto? 

Diversamente da Milo il mio selezionato circolo di amiche – le girls, come amo definirle scherzosamente fra me e me – si dimostra tutt’altro che indifferente alle mie ultime avventure lavorative. Con un pretesto scontato mi invitano fuori a cena, in apparenza curiose di capire qualcosa di più sull’arte pittorica, in realtà attratte dall’idea di qualche avvenente genio all’opera. 
L’appuntamento è davanti a un locale del centro, un ristorantino fusion individuato dall’eccentrica Lunetta, sempre a caccia di ricette insolite e piatti raffinati. 
Le ragazze arrivano assieme, sfilando verso di me stivalate di tutto punto, sorridenti ed entusiaste nel vedermi; ci accomodiamo al tavolo per noi riservato e, prima ancora di aver aperto il menù, ha inizio l’assalto. Sabrina domanda senza mezzi termini quanti fusti io abbia già incontrato e a me scappa da ridere: sicuro, il Maestro è distinto e galante, forse in gioventù sarà stato passabile, ma adesso della sua gloria fisica non rimangono che le rovine. È in pratica l’unico uomo con cui sono davvero a contatto laggiù, e sto per rispondere di non aver notato nessuno quando, d’improvviso, avverto il rimprovero della coscienza, una leggera puntura di spillo che mi buca provocatoria il fianco: mi ritrovo a pensare a Jan, alto e ben costruito, e per quanto non possa annoverarlo nel club di cui parla la mia amica, devo ammettere che ha qualcosa di stuzzicante. Confusa, rimango zitta un po’ troppo a lungo, ma le ragazze male interpretano il mio silenzio: “Figurarsi se lei ha fatto caso agli uomini! Con Milo al tuo fianco, cos’ha di speciale il resto del pianeta?”
E qui la conversazione si spegne, in parte perché – tranne Lunetta - tutte sembrano soddisfatte nell’immaginarmi per sempre accanto a lui, in parte perché non sono autorizzata a divulgare informazioni sulla Zona Cinque – le girls sanno tutto del Modulo di Riservatezza che ho dovuto firmare all’inizio del lavoro e non premono per ottenere informazioni specifiche; soltanto per Milo avrei fatto un’eccezione, ma, vista la sua freddezza, non credo ne valga la pena.
Dopo l’arrivo delle ordinazioni, la serata prosegue saltando da un argomento all’altro: gli ultimi impegni di Sabrina, traduttrice dallo spagnolo, le difficoltà incontrate da Valeria nel descrivere, per la prima volta a quattro mani, le acconciature in voga quest’anno. Lunetta ha la mezza idea di dare un taglio radicale alla sua chioma corvina, e fa un quadro minuzioso dei capelli che vorrebbe, pretendendo di aver visto una foto su un vecchio album di modelli della mamma di sua nonna. Noi arricciamo il labbro superiore: sebbene in passato fosse normale possedere riviste simili, dubito fortemente che ne esistano ancora. Sono andate distrutte in seguito all’istituzione dei Ranghi, durante l’inasprimento del Sistema. Al giorno d’oggi, in circolazione, non si trovano altro che spiegazioni dettagliate di cosa il tuo parrucchiere può fare per te; ma sono trafiletti sterili, colmi di paroloni tecnici e niente altro. Quali foto?
Le affermazioni di Lunetta mi portano a chiedermi, non per la prima volta, come doveva essere questo paese ai tempi dei nostri avi; in casa dei miei non se n’è mai parlato e io ero troppo distratta – o troppo ammaestrata? – per indagare. 
Milo lo definirebbe un postaccio, traboccante di falliti poveri e disorientati, senza la minima indicazione sull’indirizzo da prendere; ma se io mi sforzo di guardare indietro, immagino un luogo in cui tentare il proprio cammino, un luogo in cui ascoltare se stessi - invece di percorrere banali tappe predefinite. 
Chi l’ha detto che sono gli altri a doverci costantemente raccontare dove siamo diretti?

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*Grazie per avermi letto :-) 
Se vi va, fatemi sapere i vostri commenti, buoni e meno buoni; ditemi se vi riconoscete in Liz oppure no. Fatemi sapere anche se notate qualcosa che non torna: ogni consiglio è super apprezzato!*


1 commento:

  1. Questa storia è sempre più avvincente, e scritta davvero con maestria. Brava Elisa!

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33. LA PAROLA ALL'AUTORE

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