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Lunetta propone un giro in centro, tanto per fare due chiacchiere e guardare le vetrine, io decido di accontentarla perché sento di averla trascurata ultimamente; ma avrei preferito di gran lunga una passeggiata sulle colline, per perdermi nel mantello viola dei campi profumati di lavanda.
Passa a prendermi con la sua decapottabile fiammante, sprint e vistosa, tale e quale alla sua padrona. Mi stringe in un grande abbraccio e mi domanda subito della mia capatina al mare; io le descrivo il nostro weekend romantico, ma serbo alcuni particolari per me soltanto. Sono una sentimentale, che custodisce gelosamente tutto quello che ha valore.
Alla fine non reggo alla tentazione e mi lascio andare a una battuta sarcastica: “Se avessi potuto fare delle foto, adesso avrei pure qualcosa da mostrarti.”
Mi fissa in silenzio, io intuisco di aver fatto un passo falso. Questo è un commento inconsueto per me, la mia unica fortuna è che a sentirlo sia stata lei piuttosto che qualche altra malalingua dell’ufficio. In ogni caso non dovevo espormi tanto: solo con Milo mi sono scoperta a questo modo – con Milo e con Jan. Tento qualche frase scherzosa per riparare, sperando che Lunetta non mi prenda troppo sul serio; ma lei non si lascia distogliere dalla traccia.
“Sai” attacca, in tono un filino paternalistico “anch’io a volte ho desiderato fare una fotografia. Il giorno del compleanno delle nipotine, l’ultima volta che è venuto un metro di neve… tutti ci pensano, è normale” e qui si zittisce, aspettando la mia reazione, ma preferisco non esprimermi finché non so dove stia andando a parare – certamente c’è dell’altro dopo questo predicozzo, se no perché non lasciar perdere e basta? E infatti prosegue: “Ma saremmo pazzi se pensassimo di scambiare il nostro tenore di vita e la nostra realizzazione professionale con la libertà di scattare una polaroid!”
Soppeso mentalmente le sue ragioni. Lo so, sarebbe folle, eppure non riesco a riacciuffare la determinazione di un tempo. E non condivido le sue parole: che sciocchezza è “tutti ci pensano”?
“Milo non se lo domanda mai. Come sarebbe avere una foto di noi due, voglio dire.”
“Certo che se lo chiede, puoi credermi” fa Lunetta e dopo una breve esitazione aggiunge “me l’ha confessato lui stesso.”
Ecco, ora so cosa si prova uscendo da una doccia gelata: com’è che il mio ragazzo va a confidarsi con la mia amica invece di aprirsi con me? Oltretutto conosce le mie opinioni a riguardo. Non sarà stata una mossa avventata da parte sua? Lei potrebbe sempre denunciarlo alla Commissione, perché un’affermazione simile mette in pericolo la sicurezza del Sistema.
Lunetta mi legge in faccia ciò che mi passa per la testa e si affretta a correre ai ripari: “Non temere, come ti ho detto capisco in pieno. Nessuno ne saprà nulla. Neppure delle tue insicurezze” conclude, nella convinzione di confortarmi. Ma qui il mio panico si trasforma in rabbia: Milo ha menzionato la mia insoddisfazione, perché ha tradito la mia fiducia? Mi ha esposta a un rischio enorme, come ha potuto?
Lo chiedo a Lunetta, che sospira e comincia a raccontare: non molto tempo prima lui l’ha cercata per scambiare due parole. È in pensiero per me, questa mania degli altri Ranghi non vuol passare, dice. E ha pure accennato a qualche nottata inquieta, ma senza specificare di più. “Se vuoi un consiglio” mi bacchetta, “è ora di finirla con i capricci.”
Sicuro, ho torto io anche se è lui che è corso a spifferare; sono io che non gli ho lasciato scelta.
Nel frattempo abbiamo raggiunto l’entrata dei grandi magazzini, lei elettrizzata come fosse Natale, io agguerrita come una nube di vespe: che la mia fede in quest’uomo non sia poi così ben riposta? Li avrò mal giudicati entrambi? Lunetta si volta verso di me e mi prende le mani, paziente: “Milo ti ama e si preoccupa per te, che c’è di male? Lo vedessi io uno straccio di interessamento simile! Hai un lavoro prestigioso, fai la bella vita: mi spieghi qual è il problema?”
La retorica del suo quesito pone fine alla conversazione: non saprei descriverle il mattone che mi schiaccia il petto ogni sera quando mi stendo, e comunque, a giudicare da come si tuffa fra le file di abiti appesi, non credo che starmi a sentire le interessi poi molto.
La notte prima dell’appuntamento col medico del lavoro ho avuto un incubo. Camminavo fra fitti cespugli, ero sola ed era buio, ma percepivo ugualmente il profilo nero della collina. Non ero in grado di capire dove fossi, proseguivo e proseguivo, ma sarebbe più corretto dire che scappavo, mentre la boscaglia attorno a me crollava in pezzi. Poi si alzava un vento gelido e i frammenti mi volavano incontro, senza smettere di riflettere il mondo appena scomparso. Inutile poggiare i piedi sul terreno intatto, ovunque nuove folate mi investivano in pieno.
All’improvviso ho spalancato gli occhi in un sussulto.
Lo studio in cui riceve il Dottor Cautiverio è di un bianco asettico che suggerisce estrema pulizia, ma che allo stesso tempo trasmette un sordo e serpeggiante malessere, pronto a trasformarsi in ansia vera e propria da un minuto all’altro. Lui, però, non rileva il mio disagio - o forse lo ignora deliberatamente. Dopo avermi invitata con freddezza a prender posto sul divano, dà il via a uno spiacevole interrogatorio, che mira a riscostruire ogni mio passo all’interno della Zona Cinque.
Non so se scoppiare in lacrime o rotolarmi dalle risa. La situazione è grottesca, come quelle dei film di serie zeta che mi appassionavano tanto da bambina, porcherie trasmesse dall’unico canale ammesso nella Zona dei miei. La vicenda proposta era sempre la solita: branco dei cattivi, gruppo dei buoni, schianto di fanciulla in pericolo, colpo di scena finale – che c’è di meglio dei complotti del tubo catodico per distrarre l’attenzione della gente dagli intrighi del mondo reale?
Al termine del sofferto colloquio, il medico consiglia una terapia sottocutanea, seguita da analisi delle urine – che effettuerà tempestivamente non appena ne avrò consegnato un campione – e da successivi incontri di supervisione. Allungo perplessa la mano, prendo la ricetta che l’uomo mi porge e consulto con cura il referto, per scoprire dove va a parare l’ignobile trafila: confondere la mia memoria, fare dei miei ricordi una matassa indistinta in modo che io possa scordare ciò che ho visto - o almeno renderlo nebuloso, abbastanza da convincermi di aver sognato.
Lascio lo studio scossa e abbattuta: se il copione in cui mi muovo è davvero sempre il medesimo, dov’è l’eroe che mi salverà dalle grinfie dell’orco?
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