sabato 7 giugno 2025

12. CAPITOLO QUINTO

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Il Maestro sembra amare molto il mio modo di relazionarmi con lui e di condurre l’intervista; io ne sono lusingata, mi sento totalmente a mio agio. Inizialmente ci vedevamo in atelier, dove dipinti, strumenti e colleghi erano a portata di mano. Tutto è servito a integrare il mio lavoro, ma dopo un po’, col naso saturo di acqua ragia, ci siamo spostati ai giardini dall’altra parte del viale.
La Zona Cinque ha la forma di un grande stivale, noi ci troviamo in un polmoncino verde situato nel tacco; la tranquillità che respiro mi stimola almeno quanto la perizia degli artisti. Ovunque mi volti scopro deliziosi lampioncini in stile classico, che di sera irradiano un leggero alone rosato; e le aiuole sono cariche di fiori, di ogni specie e di ogni varietà. Lontani dal caos del centro, non c’è posto per bombolette e graffiti, ma la creatività trabocca ugualmente da ogni angolo: sarà dura tornare ai toni smorti del mio quartiere. 
Nei pomeriggi di sole noto scolaresche vitali ma ben disciplinate che ritraggono il paesaggio colorato tutt’attorno - per i disegni dal vero è l’ideale, e se mentre lavorano potessero giovarsi dell’esecuzione di qualche aria di Bach, lo scenario da fiaba sarebbe perfetto. So che spesso i ragazzi si trattengono fino a tardi per cogliere la grazia della fontana monumentale, i suoi impareggiabili giochi di luce quando scende il buio. In più di un’occasione, il Maestro si è avvicinato agli studenti per elargire qualche consiglio, senza mai far pesare la propria fama né palesare la sua identità; gesto nobile ma totalmente inutile, dato che l’intero Rango conosce le sue opere a menadito. Molti sembrano incuriositi dalla nostra assidua presenza, noto che si voltano a più riprese per capire cosa stiamo combinando. E non potrei giurarlo, ma una volta ho avuto la netta impressione che stessero dipingendo noi due invece del melo alla nostra destra - sentivo qualcuno che ci squadrava con vigore, lo percepivo addosso mentre eravamo seduti a chiacchierare. Mi sono accostata agli studenti per scoprire chi fosse, ma sui brogliacci non ho scorto altro che rami frondosi. Allora ho alzato gli occhi, cercando altrove, e ho scorto Jan sul ciglio della strada.

Seduta su uno degli alti sgabelli del Temet Nosce sorseggio una birra chiara con parsimonia: Milo è ancora al check sound, è presto per alzare il gomito. Il locale, con le sue pareti in pietra grezza e i suoi divanetti rossi e neri, è forse quello del centro che preferisco. C’è musica dal vivo quasi ogni sera e il barista, un capellone dai calzoni troppo calati, è uno che sa davvero il fatto suo. Il palco si trova giù dalle scale, sotto la strada, nella speranza che i vicini non si lamentino per il volume elevato. Con me c’è Lunetta, l’unica fra le girls che apprezzi la musica grunge - o forse ciò che apprezza davvero è il mio ragazzo: “Milo è fantastico, non sai quanto sei fortunata! Se penso che ha scritto una canzone per te, magari lo avessi io un corteggiatore così. È pure monogamo” e qui manda un minuscolo sospiro di rimpianto.
“Non è chiaro se quel testo parli o meno di me” correggo, ma sappiamo entrambe che sto facendo la modesta: la frangetta d’oro pallido della prima strofa fa un’eco perfetta alla mia zazzera bionda, e pure la parola farfalla tatuata sul polso non può essere una coincidenza. La colonna davanti a me è provvista di uno specchio, io scuoto la testa con garbo, in modo da far dondolare i pendenti che proprio Milo mi ha regalato – due brillanti finissimi che esaltano alla perfezione la sfumatura marina delle mie iridi. Strizzo maliziosa l’occhio al mio riflesso e devo riconoscere che Lunetta ha ragione, stasera sono io la creatura più fortunata del locale. Ed è così che mi sento, solo che la soddisfazione cieca di un tempo si è fatta traballante come una seggiola sbilenca. Non riesco a liberarmi dalla fissa che, se non mi avessero intrappolata a forza nella Classe Quattro, oggi sarei una persona diversa: una campionessa di tuffi, una danzatrice del ventre, una cameriera.
E se non mi conoscessi affatto? Se avessi tagliato fuori altre possibili facce di me stessa? Sono veramente io la donna che vedo nello specchio o è l’estranea che mi hanno cucito addosso?
L’idea che il mio tempo con gli artisti stia per esaurirsi non fa che tormentarmi, non posso neppure portarmi via un souvenir: la mia tessera acquisti è abilitata solo per la Zona Quattro, le compere in altri quartieri sono comunque escluse. Ma non voglio diventare malinconica, perciò accantono i cattivi pensieri e mi concentro sul gruppo che sta ancora accordando. Milo, sentendosi osservato, mi cerca fra la gente; io gli rammento con un sorriso che lo amo, poi il pubblico batte forte le mani e loro attaccano il primo brano della scaletta.

È quasi sera. Il cielo si va man mano scurendo e già da qualche ora, sulla nostra Zona, scende una pioggerella leggera, argentina, di quelle che ti inducono a lasciare a casa l’ombrello. Prediligo invece un impermeabile che mi ha regalato Milo, un indumento pregiato e nuovo di zecca, ovviamente adatto al buffet che verrà dato in mio onore. Lo afferro al volo ed esco per recarmi, un’ultima volta, al quartiere degli artisti.
Mentre faccio manovra per accedere al parcheggio, noto, indistinta nell’oscurità crescente, una figura minuta e apparentemente sola; una bimba in età scolare, inghiottita da una felpa abnorme, che pende dal suo corpicino come fosse più larga di diverse taglie. Mi fissa a lungo, le folte trecce bionde ai lati del visino smunto. La sua espressione, addolorata e consapevole, così simile a quella di un adulto, stona enormemente col resto della figuretta infantile; è come un pugno sul cuore, e l’intensità del suo sguardo mi porta a chiedermi se non mi conosca. Ma sono certa di non averla mai incrociata prima. 
Vorrei avvicinarmi e rivolgerle la parola, arrivare a spiegarmi la sua presenza; lei, però, scappa via veloce, dissolvendosi come pulviscolo in questo crepuscolo livido e bagnato. 
Turbata - e incapace di definire l'accaduto - prendo a camminare con ansia verso l’atelier.


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33. LA PAROLA ALL'AUTORE

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