martedì 8 luglio 2025

27. CAPITOLO DODICESIMO

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I giorni sul calendario passano a rilento, ma comunque scivolano via, e in men che non si dica mi ritrovo nuovamente alla scrivania del Dottor Cautiverio. 
Mi sono fatta grandi beffe della prescrizione che mi aveva fatto, ma sono stata abbastanza sveglia da procurarmi il farmaco, di cui posso produrre scontrino e fialette opportunamente svuotate. Ho con me pure il campione richiesto, se crede che stia assumendo qualcosa di illecito posso provare che ha preso un granchio. Controlli pure quanto vuole.
Lui mi osserva, risparmiandomi la sfilza di domande a cui mi aveva sottoposta settimane fa. Ha però un’aria scettica che non comprendo; è evidente che ho toppato in qualche particolare nel mettere in piedi la mia commedia. Mi sa che non sono poi la gran volpe che immaginavo.
“Cara signorina” esordisce con glaciale cortesia, “se si fosse attenuta alla cura come dice, l’urina all’interno della provetta sarebbe di una bella sfumatura rossastra. Ma lei non può saperlo, perché è chiaro come il sole che non si è degnata di leggere il foglietto illustrativo; in caso contrario, avrebbe almeno tentato di truccarla un po’.”
Idiota, mi rimprovero mentalmente, quanto sei idiota! Il dottore dice il vero, non ho mai aperto quel foglio; ma come potevo sospettare che uno degli effetti di quella roba fosse tingere la mia pipì? Non mi sognavo neppure che esistessero farmaci con un tale effetto. 
Mi passo la lingua sulle labbra e aspetto il resto trattenendo il fiato.
“Adesso le dico cosa faremo: siccome non sono cattivo, le darò un’ulteriore possibilità, a patto di non essere preso ancora per il culo. Basta con la sua sfacciataggine. Assuma la medicina e si ripresenti fra due settimane. Senza fregature, o coinvolgeremo il suo fidanzato. Buona giornata.”
Ciò detto, si avvia verso la porta, la spalanca e mi guarda con quei duri pezzi di granito che si ritrova al posto degli occhi; io mi faccio piccola piccola e scivolo fuori, spazzata via con fretta e disgusto manco fossi un insetto raccapricciante.

Guidando verso casa rimugino sulle parole del sanitario; il suo tono e la scelta delle espressioni assicurano che c’è poco da scherzare. Stavolta non sarò in grado di svicolare, come ignorare le sue disposizioni? La minaccia di coinvolgere il mio ragazzo – anche se non vedo a che titolo – mi turba enormemente. Devo mettermi in contatto con lui, avvertirlo. 

Aprendo la porta dell’appartamento, a ogni modo, scopro che sollevare la cornetta non è necessario: Milo mi ha preceduta ed è già là, in attesa, sprofondato nel pouf al centro del soggiorno. Le gambe mi tremano per il sollievo, non mi ero accorta di aver tanta voglia di saperlo al suo posto, di fianco a me: “Sei venuto.” 
“Sarei venuto dai confini della terra. So quando c’è bisogno di me. Com’è andata la visita?” chiede e io avrei voglia di sciogliermi in pianto, ma resisto alla tentazione; niente ipocrisie, per le mie miserie non ho che da incolpare me stessa. Adesso è giusto pensare a lui: “Ha detto che prenderanno contatto con te” dico, poi snocciolo tutto il resto parola per parola, fissandomi i piedi, troppo imbarazzata per sostenere il suo sguardo. Ma al termine del racconto lui rimane tranquillo – oppure nasconde l’agitazione dietro la maschera del giocatore di poker. 
“Calma. Calma” ripete, “nessuno verrà a cercarmi, ma è necessario che tu segua le disposizioni. Per il tuo bene” conclude, e ha su un cipiglio che non ammette replica. 
Mi affretto a promettere che non farò storie in futuro, che porterò a termine il trattamento “fino all’ultima boccetta” e Milo pare soddisfatto della mia sollecitudine. È tanto riconoscente al Dottore per avermi dato una seconda chance che quasi quasi lo considero magnanimo anch’io, eppure quella fiammella di ribellione che mi porto dentro non si rassegna a morire completamente: perché ricorrere a una dannata cura quando si è sani come un banco di sardine?
Esaminando la nuova scatola di fialette Olvido che Milo si è procurato, apprendiamo che il farmaco va somministrato ogni mattina a digiuno e che i suoi effetti non tarderanno ad arrivare – compreso un subitaneo miglioramento dell’umore, stando ai prodigi promessi dalle istruzioni. 
Milo si fa nuovamente avanti per le iniezioni e questa volta non posso non acconsentire. A puntura fatta, lui sembra alzarsi da un letto di spine; ampiamente rilassato, mi prepara una colazione da regina e propone una visita alla nostra biblioteca preferita.
La biblioteca si trova in centro, all’interno di un ex convento situato su più piani, dall’ultimo dei quali si gode una vista spettacolare: gli eleganti palazzi sono a portata di mano, ti illudi di poterli toccare con un dito, e di recente hanno pure aperto una caffetteria, con postazioni ad hoc per studenti e pratiche poltroncine per lettori più attempati. Quest’edificio conserva volumi a migliaia, alcuni molto antichi, altri di ultima pubblicazione; per due come noi la permanenza qui è un paradiso, spesso spendiamo ore tra i vecchi scaffali carichi. Mentre mi attardo davanti ai classici, Milo sparisce nel reparto musicale, per riemergerne dopo qualche tempo con diversi tesori fra le braccia. Mi mostra trionfante le novità che ha scovato, una inesauribile pila di libri su cui troneggia una raccolta delle mie, e io so che questo è un messaggio, il cui codice non è arduo da decifrare: non ti servono modelli da seguire o vite altrui da invidiare, sei già ricca così come sei. 
Stringendo forte i miei racconti, si avvia al banco con la tessera del prestito già fra le dita, poi torna da me, proponendo di recarci giù al chiostro: là potremo leggiucchiare tranquilli per un po’, la vegetazione fitta a farci da schermo contro il sole feroce di mezzogiorno. 

Finiamo per trascorrere ore seduti su una delle antiche panchine in pietra, lui immerso per la centesima volta nelle mie novelle, io con matita e blocchetto pronti all’uso. La serenità di questo edificio ha fatto nascere in me l’improvvisa urgenza di scrivere, ma ogni volta che attacco una frase sono costretta a tornare indietro e cancellare: dalla mia penna non escono altro che allusioni al quartiere degli artisti, ma so di non potermi permettere il più piccolo accenno. Oh, se solo esistesse un luogo, fuori dallo spazio e fuori dal tempo, una piccola stanza invisibile in cui poterli incontrare di nuovo! Ne varcherei la soglia immediatamente, anche se si trattasse di un unico pomeriggio, di poche e fugaci ore da vivere insieme. Ci sono mille cose che vorrei condividere, e altre mille che vorrei spartissero con me. Ma un posto simile non l’hanno ancora inventato, perciò continuo testarda a pensarli, a pensarli forte e poi più forte, perché… chi lo sa? magari in questo modo sapranno quanto desideri vederli, magari in questo modo riusciranno a sentirmi.


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33. LA PAROLA ALL'AUTORE

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