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Non mi accorgo di come la mia mente sia confusa fino a quando, una mattina a colazione, Milo rievoca con nostalgia la tartare gustata qualche settimana fa al ristorantino sul molo. Lì per lì mi coglie impreparata: “Che tartare?” domando meravigliata imburrando il pane, e dallo sguardo che mi restituisce afferro la verità al volo: la chimica sta avendo la meglio sui miei neuroni. Mi osserva guardingo, poi cerca di buttarla sullo scherzo: “E su, che memoria corta che hai, al mare ti sei sparata mezzo chilo di tonno! Non so come fai a mantenerti tanto secchina.”
“Non era mezzo chilo, e comunque ne hai rubato la metà.”
“Io?”
“Tu” rispondo sprezzante, nel tentativo – vano - di mostrare noncuranza. Ma subito mi concentro sul piatto servito dal cameriere quella sera, per assicurarmi di visualizzarlo ancora; con un po’ di sforzo riesco a risentirne perfino il gusto. Delizioso. Rincuorata – e, a dispetto di tutti i suoi discorsi, noto che lo è anche Milo – inizio a passare in rassegna il resto, ricordi che mi premono molto più di una semplice cenetta romantica: il volto di mia madre poco prima di morire, il momento in cui un affascinante sconosciuto mi rivolse la parola al Temet Nosce, rivelandomi di essere il leader di uno dei gruppi della serata, la trepidazione per la prima presentazione organizzata in libreria dal mio precedente editore. C’è tutto, ogni pezzo del mosaico è al proprio posto, le facce, i gesti, le mie emozioni. Ma queste sono immagini secolari, tenaci, ormai parte radicata di me; ho il sospetto che i problemi riguardino piuttosto gli ultimi mesi. Rifletto un istante: con la capacità innata che ho di esporre gli eventi, forse basterebbe procurarsi un quaderno e buttar giù qualche riga, tanto per avere la certezza di non perdere per strada nessun particolare interessante. Ma accantono l’idea in fretta. Non posso essere sicura che rileggendo un diario proverei le stesse intense sensazioni di una volta, la potenza del ricordo è un altro paio di maniche: che tristezza accontentarsi di un’eco sbiadita! E ci sono cose che non saprei spiegare chiaramente: la voce di Jan, per esempio, come si può raccontare una voce sopra un foglio, l’impatto che ha su tutto il tuo essere? Nel pormi questa domanda, mi sovviene che forse già ora non rammento bene alcuni dettagli della sua persona: ha la barba, giusto? Oppure non ce l’ha? E i capelli sono lunghi veramente? Per il momento lascio perdere, intenzionata come sono a tenermi su. Ci penserò più tardi. Mi rivolgo di nuovo a Milo, che nel frattempo sta recuperando dalla mensola qualcosa di peso e assai ingombrante: è la sua preziosa scacchiera in marmo artigianale, costituita da pezzi talmente raffinati che il suo acquisto ha richiesto un permesso speciale. Gli faccio presente che non so giocare, ma lui ribatte che è tempo di imparare qualche mossa: “Ti ho spiegato cento volte le regole principali, ora vediamo se mi sei stata a sentire.”
Gli sorrido riconoscente: vuol distrarmi dal pensiero di quelle dannate fiale e dalle loro conseguenze sulla mia persona. Non credo funzionerà, ma tentar non nuoce. Milo ha sempre la risposta giusta, ogni volta è lì che si occupa di me: che diavolo farei senza?
Nascosti sotto la coperta, ci esploriamo a vicenda; sciogliersi nel suo abbraccio è un passaggio dolce come al solito, ma stavolta, accanto alla passione, avverto un altro sentimento - una tensione, rigida e mal trattenuta, che stento a definire. A dispetto di tutto il nostro amore, è proprio lei la protagonista, è lei a fonderci assieme questa notte.
Ancora allacciati, ci eclissiamo in un sonno agitato finché la pendola, dalla cucina, rintocca mezzanotte.
In capo a un’ora mi sveglio ansante, come se avessi corso a perdifiato. Ho avuto un altro incubo, ho perfino gridato, ma tanto non sono di disturbo a nessuno: Milo, dovendo lavorare presto domattina, ha preferito tornarsene al suo appartamento e io giaccio sola soletta nel mio lettone.
Mi alzo, premo l’interruttore della lampada sul comodino e mi guardo angosciata nello specchio. Poi osservo le mie mani, nella speranza che il vecchio trucco possa qualcosa contro la folle corsa del mio battito cardiaco. Poco a poco mi calmo e vorrei non richiamare le immagini del sogno appena interrotto, ma quelle si fanno strada dispotiche, come un nastro su cui è impresso il più osceno dei film, di cui la mia coscienza non perde alcun fotogramma. Era tutto così vivido: via dei Salici, lunga e ricurva, la fontana monumentale dagli spettacolari intarsi, l’espressione bonaria del Maestro mentre si rivolge agli studenti fra i colori accesi del parco.
E poi Jan col suo mezzo sorriso, soprattutto Jan, intento al lavoro dinnanzi alla tela superba. Questo e altro ancora naufragava in una pozzanghera stagnante ai miei piedi, vermiglia e densa come sangue, in cui i ricordi si mescolavano col fondo fangoso fino a dissolversi del tutto.
Sento la rabbia che monta, non riesco a sopportarlo, non tollero che l’incubo divenga realtà.
Mi precipito al comò, apro il primo cassetto, estraggo la scatola di fiale: le conto, ce ne sono ancora così tante da utilizzare! Troppe. Scorro frenetica il bugiardino, alla ricerca di maggiori informazioni, ma sulla questione “pipì” non è spiegato quasi nulla; si allude solo superficialmente all’aspetto rossastro delle urine, raccomandando caldamente di non darci peso.
Rievoco le parole del Dottor Cautiverio: ha parlato di una sfumatura, non di uno scuro magenta, e quella sfumatura esiste già, è leggera ma al contempo evidente. E io so bene cosa bisogna fare: sospendere momentaneamente le iniezioni, ecco la scappatoia, per riprenderle a qualche giorno dalla prossima visita, così da mantenere pressoché intatte le mie memorie senza per questo compromettere gli effetti del pigmento contenuto in quell’odioso e assurdo medicinale.
Gongolo davanti allo specchio per un po’, immensamente compiaciuta di me stessa: non è una trovata geniale?
A dispetto dell’onda anomala che minaccia di travolgermi, scelgo di avanzare dritta sulla strada che mi è dato di percorrere. Sono io a condurre, dopotutto, io che imposto navigatore e direzione.
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