sabato 28 giugno 2025

24. CAPITOLO UNDICESIMO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Prima che me ne accorga arriva il trentesimo compleanno di Lunetta, e io e le girls organizziamo una vera e propria battuta di caccia per scovare un luogo memorabile in cui organizzare una festa di tendenza. La scelta cade su un’antica colonica a tre passi dalla città, posto ideale per beffarci del caos dei viali senza sentirci troppo isolati. 
Lo so, Lunetta avrebbe optato per una notte brava in discoteca, ma io e le ragazze siamo andate ben oltre: è stato ingaggiato un barista che sarà con noi fino in fondo, un tecnico che si occupi dello spettacolo pirotecnico, e abbiamo il permesso di trattenerci fino al mattino se lo riterremo opportuno – non vogliamo trovarci ubriachi al volante. Facciamo il consueto giro di telefonate, ci scervelliamo per indovinare cosa la nostra amica desideri in regalo – c’è chi propone il solito profumo, chi rilancia con un buono sconto da sfruttare in libreria, chi pensa a uno stock di prodotti per la pulizia della sua adorata automobile. Forse ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo, ma trent’anni si compiono una volta sola; è un traguardo importante, da celebrare come si deve. Ero furente con Lunetta e una parte di me lo è ancora, ma non permetterò che qualche ruggine di poco conto rovini l’evento. 
A dirla tutta sono un po’ nervosa. È la prima occasione in cui ritrovarsi tutti assieme, e io non ho nemmeno accennato a Milo che sono al corrente delle loro confidenze; però ho prudentemente messo in chiaro che del mio incontro col Dottor Cautiverio non deve essere informato nessuno.
Quando arriviamo è ancora presto, perciò ho il tempo di ritoccare il trucco mentre lui si assicura che ogni cosa sia in regola. Col passare delle ore il posto si fa sempre più affollato e verso le nove corriamo tutti a nasconderci, abbassiamo le luci e attendiamo l’ignara protagonista della serata. Quando Lunetta, attirata qui con una scusa banale, fa il suo ingresso nella sala grande, esplodiamo in un boato ruggente che la sorprende e la delizia al contempo. Tecnico e barista si accontentano di fischiettare, non potendo intonare “tanti auguri a te” assieme a noi; poi cominciano gli scherzi all’indirizzo della festeggiata: “Scommetto che non sei più tanto afflitta dall’invecchiare, eh?”, e lei è costretta ad ammettere che l’organizzazione ha dell’incredibile; è raggiante come una bimba. 
Di regola non amo ballare, ma non so resistere alla pista allestita sotto le stelle; ben determinata a ritrovare l’affiatamento che avevo con Milo, mi lancio in un twist scatenato strizzandogli l’occhio con intenzione, e lui mi segue a ruota. A ogni ballo ne succede immediatamente un altro fino a quando, fradici di sudore, ci avviamo al bancone improvvisato per concederci un drink.
Sorseggio ansante il mio bloody mary – rigorosamente con tequila, niente vodka per i miei gusti – quando Lunetta si materializza dal nulla e prende posto vicino a me sulla panca. "Serata fantastica, non so come farò a ringraziare tutti.” Si sventola un po’ con la mano, poi aggiunge sottovoce: “Perdonami per l’altro giorno, vuoi?”
Io sorrido, finalmente libera da un peso: “Ma certo, pietra sopra.”
Così si alza, nuovamente diretta verso la pista da ballo, io afferro Milo per un braccio e lo tiro a me con forza: “Restiamo anche per la notte? Il posto è immenso, non dovremo lottare troppo per un po’ di privacy.” Lui mi prende in parola, esaurisce l’ultimo shottino, mi solleva e mi carica in spalla, avviandosi verso la scala che conduce al piano superiore. Io batto radiosa le mani nel tumulto: scintille in vista.

Quando mi sveglio, con un leggero mal di testa e un filo di nausea, intorno a me è buio pesto. È notte fonda, tutti sono saliti a dormire, almeno a giudicare dalla quiete dell’ambiente. Cerco Milo a tentoni sul materasso vicino al mio e mi accorgo di essere rimasta sola, ma non mi preoccupo: sarà certamente alla toilette, dopo i fiumi di birra che si è scolato! Mi giro sull’altro fianco, sperando di risprofondare nel sonno senza che la camera ondeggi troppo, ma qualcosa cattura la mia attenzione: c’è qualcuno in corridoio, sento i bisbigli nell’oscurità. Chi può essere? 
La risposta arriva qualche minuto più tardi, quando Milo rientra in camera e il ticchettio dei passi del suo interlocutore si allontana in fretta; altro che bagno, era lui là fuori! E in compagnia di Lunetta per di più, riconoscerei la sua andatura fra mille. Cos’hanno adesso da confabulare?
Milo ha qualcosa in mano, qualcosa di piccolo e scuro che posa sul mio comodino senza fare rumore, qualcosa di poco visibile ma maledettamente somigliante al mio cellulare.
Umiliata e incredula non so se alzarmi e affrontarlo o continuare a fingere di dormire: come ha osato, e dopo che gli avevo chiesto discrezione! E quella vipera, invoca perdono per poi pugnalarmi alle spalle? 
Nei giorni seguenti una miriade di dubbi assedia il mio cuore: era la prima volta in cui il mio ragazzo mi controllava? Avranno certamente letto i miei messaggi, ma quali? Perché?
Mi torturo al pensiero che, quella notte, possano avermi nuovamente cercata dalla Zona Cinque; Milo potrebbe aver intercettato la chiamata, decidendo che sto meglio senza ulteriori notizie. 
Mi balocco con l’idea di contattare Jan io stessa, ma ho troppa paura di esporlo a un pericolo: finora ho gettato la prudenza al vento, che succederebbe se le linee telefoniche venissero tracciate? 
Non so come agire con Milo, non so se cercargli delle attenuanti oppure chiuderlo all’angolo. Mi arrovello per capire cosa lo spinga a comportarsi così: la gelosia? Un eccesso di ansia nei miei riguardi? O semplice timore per se stesso? Forse è proprio questo il problema: dopotutto, sapendo quello che sa e non correndo a denunciarmi, finirebbe di certo in cima alla più nera di tutte le liste.

Subito dopo la festa Milo si defila in sala prove; a sentir lui è per un impegno improvviso, ma il mio istinto femminile la sa più lunga. Mi sta evitando, ecco la verità, forse per rabbia o forse per paura, e devo ammettere che una parte di me è contenta così: la lontananza allarga la prospettiva, chissà che questo interludio non mi aiuti a sbollire un po’. Anche Lunetta è svanita dai radar e pure in questo caso non me la sento di sollecitare un incontro che finirebbe da schifo. 
No, meglio tentare nuove strategie per tenersi occupati. Che delizia sarebbe andare al lago per due bracciate, ormai la stagione lo permette, che beatitudine calarsi nella cornice verde di quelle fresche acque! Sospiro. Le spensierate nuotate estive risalgono a quand’ero bambina, sono un’altra delle mille cose che ho perso in seguito all’Inquadramento: i soli impianti sportivi presenti da queste parti sono destinati alla riabilitazione, non c’è verso di allenarsi un po’ se non con la lesione di un menisco! Alla sola idea la mia depressione si fa ancora più abissale. Zero atleti in Zona Quattro.
Perciò cerco di non pensare a niente, cerco di non indugiare sulla scatola di lenti a contatto che il mio ragazzo dimentica sempre sul tavolo, accanto alla cenere del suo tabacco, ed evito le tisane allo zenzero che di solito condividiamo, nella segreta speranza che lui stia facendo lo stesso, che accusi la mia mancanza almeno un poco.
Piuttosto, mi tuffo nel lavoro. In ufficio, benché taciturna, riesco ad essere affabile come al solito, e grazie al cielo Daria si comporta da persona discreta, intuendo che desidero solamente starmene in pace. 

martedì 24 giugno 2025

23. CAPITOLO DECIMO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Sapendo che non ho nessuna pratica in materia, Milo è ben deciso ad aiutarmi con le iniezioni di Olvido, il farmaco indicato dal Dottor Cautiverio; ma io ho bisogno di capire se questa terapia intendo seguirla veramente - anche se mi guardo bene dal rivelarlo. Ogni volta che mi interrogo, mi rispondo di no: è così profondamente ingiusto! Obbedire ciecamente è la regola, ma stavolta non ho intenzione di darla vinta a nessuno.

Fingerò, non sarà poi così difficile. Racconterò che preferisco provvedere da sola a tutto, che il medico mi ha mostrato il sistema più indolore per le punture: Milo non mi crede capace di una tal recita e non avrà sospetti. Lo so, sarei più credibile se non avessi insistito tanto perché mi accompagnasse al centro sangue un anno fa, ma la situazione allora era totalmente diversa: intanto non si trattava di un semplice prelievo, ma di una vera e propria donazione – qui da noi le donazioni sono eventi obbligatori per la popolazione, il loro scopo è procurare a ogni Classe piena autonomia, sia mai che bussiamo alle emoteche altrui! Ma, per la verità, in quel caso era stata più che altro la macchina con tutti i suoi tubicini a mandarmi in tilt, non gli aghi; lo convincerò che non mi danno alcun fastidio, per quanto spessi e letali possano apparire.

Mi sono fasciata la testa inutilmente: Milo accetta la mia parola, perché non mi vede nella veste di chi osa lanciare la sfida. Pensa che io non abbia l’audacia necessaria, e fino a oggi era proprio così. Il che, se non mi fa onore, almeno gioca in mio favore nella situazione in cui mi trovo.

Solo una cosa mi spiace immensamente: che non si sia scomposto affatto. Alla notizia che mi si invita – mi si obbliga! – a danneggiare irreparabilmente la mia memoria, lui non ha aperto bocca, si è limitato a mettere a disposizione le sue squisite doti da infermiere, affrontando la questione unicamente dal punto di vista logistico: capisco che voglia difendere il Sistema che lo ha cresciuto, ma a qualunque costo? Anche quando calpesta quel poco di intimo che ci è rimasto? 

Si comporta come se tutto andasse per il verso giusto, come se ogni individuo venisse favorito nella vita, ma non è affatto così: se a lui è concesso regalarci le sue meravigliose canzoni, c’è chi invece vive nel divieto assoluto di tirare fuori ciò che ha dentro, quasi fosse inutile. O fosse un crimine. Solo la disciplina conta, con le sue sciocche regole, solo il nostro Inquadramento e il profitto che ci riesce di cavarne. Niente spazio per i desideri.

Questa profonda differenza di vedute mi amareggia molto e so che lui se n’è accorto; e, se non voglio casini, mi conviene lasciargli credere che sia il suo modo di fare ciò che mi angustia di più, ma sotto sotto c’è dell’altro. Non seguirò quell’infernale terapia, non accetto di scordare il quartiere degli artisti né quello che mi ha dato, non voglio cancellare Jan, la sua storia, la prova schiacciante che le gabbie dorate in cui viviamo non funzionano. Non mi ruberanno la sensazione tanto nitida del suo tocco sulla pelle, voglio tenere quell’immagine per sempre con me, giorno dopo giorno, anno dopo anno: non posso più tornare indietro ormai, le sue dita che mi sfiorano il polso sono diventate la mia versione personale di profondo. 

Di solito, quando Milo prepara la cena, io mi accomodo al tavolo di cucina e lo osservo controllare cottura e sapidità delle pietanze, aggiungere qualche spezia, sfumare con una goccia di vino: è un cuoco niente male, e non consulta mai un ricettario. Se è venerdì, mi concedo un calice di bianco fermo, il mio favorito, e mi godo l’aroma che aleggia nell’ambiente; Milo ha un sesto senso per l’armonia dei sapori, tenergli compagnia ai fornelli è ogni volta motivo di relax e di gioia. 

Eccezion fatta per gli ultimi giorni. Al momento sono un tantino avvelenata nei suoi riguardi e, sebbene non abbia voglia di ulteriori discussioni, non so spiegarmi perché lui non torni più sull’argomento: come se non ci fosse altro da approfondire, come se la questione sapesse d’aria fritta. Per lui il discorso è morto lì, mentre per me è ancora vivo e vegeto, mi ribolle nello stomaco come lava nella pancia di un vulcano. Mi sento trascurata, incompresa, e questo mi disorienta: mai quest’uomo mi aveva trasmesso sensazioni simili prima d’ora. Così trascorriamo assieme diverse serate funeree, consumando i pasti in silenzio. Le poche parole che ci scambiamo sono sciocchi convenevoli, semplici mezze frasi dalla mera funzione organizzativa, del tipo “mi fai il favore di passarmi il pane?” o “che danno stasera in tv?”

Andiamo avanti in questo modo per un po’, fino a che, finalmente, durante una passeggiata sul fiume al crepuscolo, le sue vere motivazioni vengono a galla. Camminiamo lentamente a lato di una strada poco trafficata, la luce fresca e azzurrina è quella che pian piano conduce verso sera. È ovvio che Milo si sente ispirato in modo particolare – oppure è solo stufo della piega lugubre che hanno preso le cose fra noi - perché si apre a confidenze di cui non avevo idea; tenendo ben salda la mia mano nella sua, inizia a raccontare fatti risalenti a molti anni addietro, quando era ancora un mocciosetto viziato.

La vicenda di cui mi mette a parte è piuttosto simile alla mia: una donna ancora giovane, collega di sua madre, che di punto in bianco diviene aspra e insoddisfatta, talmente inadempiente sul lavoro da ritrovarsi relegata in un’altra Classe. 

“In un’altra Classe? Non sapevo ci fosse modo di cambiare Rango” esclamo io, d’un tratto attentissima all’argomento: se un’eccezione è stata possibile in passato, forse potrà esserlo di nuovo, forse potrà esserlo per Jan. Sono tutta orecchi.

“Ma che hai capito?” sbuffa lui, “ciò che decide la Commissione è definitivo: non si sfugge all’Inquadramento, quella tizia è stata banalmente declassata. Certo non l’hanno inserita nelle Dominanti” replica amaro e sarcastico, e mi piacerebbe insistere sulle sue parole e sulla scelta del verbo “sfuggire”, ma non è il caso di star qui a puntualizzare. Secondo Milo la donna era stata trasferita nella Zona Otto senza grandi risultati e in capo a sei mesi le avevano trovato un letto in Struttura; per riparare il guasto, si diceva. La notte in cui l’avevano portata via era calda e afosa, i grilli cantavano a gran voce nel prato. Milo aveva osservato la sua finestra, un quadratino luminoso nell’inchiostro scuro delle ore piccole, poi aveva scorto lunghe ombre scivolare nel vuoto della strada sottostante, aveva udito passi volare su per le scale e singhiozzi convulsi fino allo spegnersi della casa intera. Non lo aveva più dimenticato.

“Questo non deve succedere anche a te” conclude fissandomi serio, e io incrocio le braccia risentita: so fare bene il mio lavoro. “Sono fra i migliori dell’ufficio” protesto.

Lui mi fa notare che l’inadempienza non è la sola causa di declassamento, e mi abbraccia tanto stretta che temo di soffocare: “Dolcezza mia, devi guardarti le spalle. Come vivrei se ti perdessi?”


domenica 22 giugno 2025

22. LA PAROLA ALL'AUTORE


(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)


La necessità del vostro Feedback
Scrivere una distopia è come realizzare un castello di carte durante il terremoto: ogni carta (ogni regola, ogni dettaglio, ogni restrizione) deve incastrarsi perfettamente con le altre, ma il rischio che qualche pezzo traballi è costantemente dietro l’angolo.
Il mio mondo narrativo è incentrato su norme e divieti, e ciò porta facilmente a cadere in contraddizione: un dettaglio messo nero su bianco al primo paragrafo può risultare smentito in seguito, senza che io me ne renda minimamente conto.
Non si tratta di disattenzione; ma quando si descrive una dimensione diversa, con una logica tutta sua, è facilissimo, a un certo punto, incartarsi. Eppure il bello sta proprio qui - perché è qui che entrate in gioco voi. 
L’opinione dei lettori è necessaria a chi scrive: commenti, osservazioni, domande… tutto può trasformarsi in un feedback prezioso, che mi aiuta a vedere ciò che (non volendo!) mi perdo sullo sfondo - presa come sono dal racconto in primo piano.
E in questo caso i vostri suggerimenti hanno un valore ancora più grande, perché la mia difficoltà è doppia: il blog va oltre i limiti del romanzo tradizionale, è uno spazio in cui amplio la vicenda, aggiungo brani, esploro retroscena inattesi e punti di vista alternativi. Se tale libertà creativa, da un lato, è entusiasmante, d’altro canto amplifica al massimo le possibilità di errore.

Per questo vi ringrazio fin d’ora: ogni vostro contributo rende il mondo che sto costruendo più solido, più coerente e, soprattutto, più vivo.





giovedì 19 giugno 2025

21. ESPANSIONI


(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Sotto il nome Espansioni trovate quella parte di narrazione che segue le esistenze dei nostri personaggi, ma non compare nel testo originale; perché il mondo di Liz è un organismo che va oltre...


Lunetta: Ho speso una buona metà del pomeriggio davanti allo specchio di camera, applicando ad arte un trucco leggero, capace di valorizzare labbra e zigomi senza essere troppo vistoso. Svolazzi e ghirigori non sono apprezzati in Zona Quattro, anche se realizzati con semplice kajal nero; per sciocca vanità, rischierei di beccarmi una bella multa, e non credo ne valga la pena. Chissà, invece, che capolavori di maquillage si vedono in giro nel Rango Cinque…
Forse avrei potuto osare un po’ di più almeno con la pettinatura, ma qua da noi le fonti di ispirazione sono piuttosto carenti; provo a lasciarmi contagiare dalle acconciature delle ragazze del quartiere, ma non trovo mai niente che mi scateni la fantasia. 
Privi di ritratti cui fare riferimento, persino gli specialisti nei saloni di bellezza sono a corto di idee: non esistono scatti di modelle acconciate, soltanto chilometriche descrizioni difficili da interpretare. 
Avessi ancora il vecchio catalogo della bisnonna! Lì, sì che scoverei spunti creativi!
Eppure, in tutta franchezza, non posso dirmi insoddisfatta del risultato: le mie lunghe ciocche brune incorniciano il volto alla perfezione, il corallo brilla lieve sul mio sorriso, la pelle emana una delicata, particolare fragranza agli agrumi… e sono certa che lui, sempre attento a ogni dettaglio, non si farà sfuggire la cura che gli ho dedicato. Perché è per lui (e lui soltanto!) che ho messo in piedi un restyling così meticoloso.
Per la serata mi attende il Temet Nosce, con la sua ottima selezione di cocktail e musicisti; e sebbene, per rotazione, il turno oggi non spetti a Milo, so per certo che presto o tardi si presenterà, tuffandosi fra il pubblico per godersi lo spettacolo. E, si spera, comparirà da solo: mi si stanno anchilosando le dita a furia di tenerle incrociate.
Nell’attimo in cui oltrepasso l’insegna bianca e rossa del locale, sono un leone ruggente; anzi, una leonessa, lanciata sulle tracce di una preda che non può sfuggirmi. Scendo giù, sotto il livello della strada, euforica. Ma come poggio il tacco sull’ultimo gradino, il corallo passato con tanta premura si fa gelido sulle mie labbra. 
Mi consolo pensando che la mia previsione era stata azzeccata: lui è davvero là, seduto a un tavolo tra la folla, con il suo approccio irresistibile. Ma il posto accanto al suo non è affatto vacante. Milo si è trovato compagnia, una compagnia che conosco a fondo: Liz Di Bianco, la mia deliziosa collega del piano terreno, un soggetto a me graditissimo fino a pochi secondi fa. 
Liz, la mia fidata amica dai tempi del liceo.
L’espressione di trionfo che sfoggiavo all’entrata si increspa, implode - e con lei implode tutto il mio animo. Ma non ho da temere figuracce: quei due appaiono troppo presi, troppo concentrati per gettare uno sguardo oltre il loro intimo microcosmo e leggere l’amarezza che mi pervade… mentre io sprofondo in mezzo ai flutti torrenziali di una cascata in piena.

*

Ripenso a quando, ancora ansanti, indugiavamo sul letto, stretti in un abbraccio; a quando appoggiavo il mio stupido cuore sopra il tuo petto. A come tenevo i miei sogni lì, a contrasto, sperando che l’impatto tra noi producesse polvere di stelle… mentre mi è chiaro, adesso, che l’aura del mio pianeta non ha mai sfiorato il tuo, neppure ai margini…
La sola speranza è che per te la monogamia non abbia poi tutto questo peso; nel nostro Rango la fedeltà conta assai poco, e tu ti sei sempre definito un figlio del vento, sovrano di te stesso. Ma la devozione e l’intensità con cui ti rivolgi a Liz mi dicono che i riflettori sulla tua vita da uomo libero si stanno affievolendo: guidato da una scintilla interna, trai vigore dallo stesso incendio che divampa quando affronti il palcoscenico.
Con i crampi allo stomaco, ti osservo rinunciare alla possibilità di immergerti in me, in noi - mentre aggiusti la rotta verso un orizzonte inesplorato.



martedì 17 giugno 2025

20. CAPITOLO NONO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Lunetta propone un giro in centro, tanto per fare due chiacchiere e guardare le vetrine, io decido di accontentarla perché sento di averla trascurata ultimamente; ma avrei preferito di gran lunga una passeggiata sulle colline, per perdermi nel mantello viola dei campi profumati di lavanda.
Passa a prendermi con la sua decapottabile fiammante, sprint e vistosa, tale e quale alla sua padrona. Mi stringe in un grande abbraccio e mi domanda subito della mia capatina al mare; io le descrivo il nostro weekend romantico, ma serbo alcuni particolari per me soltanto. Sono una sentimentale, che custodisce gelosamente tutto quello che ha valore.
Alla fine non reggo alla tentazione e mi lascio andare a una battuta sarcastica: “Se avessi potuto fare delle foto, adesso avrei pure qualcosa da mostrarti.”
Mi fissa in silenzio, io intuisco di aver fatto un passo falso. Questo è un commento inconsueto per me, la mia unica fortuna è che a sentirlo sia stata lei piuttosto che qualche altra malalingua dell’ufficio. In ogni caso non dovevo espormi tanto: solo con Milo mi sono scoperta a questo modo – con Milo e con Jan. Tento qualche frase scherzosa per riparare, sperando che Lunetta non mi prenda troppo sul serio; ma lei non si lascia distogliere dalla traccia.
“Sai” attacca, in tono un filino paternalistico “anch’io a volte ho desiderato fare una fotografia. Il giorno del compleanno delle nipotine, l’ultima volta che è venuto un metro di neve… tutti ci pensano, è normale” e qui si zittisce, aspettando la mia reazione, ma preferisco non esprimermi finché non so dove stia andando a parare – certamente c’è dell’altro dopo questo predicozzo, se no perché non lasciar perdere e basta? E infatti prosegue: “Ma saremmo pazzi se pensassimo di scambiare il nostro tenore di vita e la nostra realizzazione professionale con la libertà di scattare una polaroid!”
Soppeso mentalmente le sue ragioni. Lo so, sarebbe folle, eppure non riesco a riacciuffare la determinazione di un tempo. E non condivido le sue parole: che sciocchezza è “tutti ci pensano”?
“Milo non se lo domanda mai. Come sarebbe avere una foto di noi due, voglio dire.”
“Certo che se lo chiede, puoi credermi” fa Lunetta e dopo una breve esitazione aggiunge “me l’ha confessato lui stesso.”
Ecco, ora so cosa si prova uscendo da una doccia gelata: com’è che il mio ragazzo va a confidarsi con la mia amica invece di aprirsi con me? Oltretutto conosce le mie opinioni a riguardo. Non sarà stata una mossa avventata da parte sua? Lei potrebbe sempre denunciarlo alla Commissione, perché un’affermazione simile mette in pericolo la sicurezza del Sistema.
Lunetta mi legge in faccia ciò che mi passa per la testa e si affretta a correre ai ripari: “Non temere, come ti ho detto capisco in pieno. Nessuno ne saprà nulla. Neppure delle tue insicurezze” conclude, nella convinzione di confortarmi. Ma qui il mio panico si trasforma in rabbia: Milo ha menzionato la mia insoddisfazione, perché ha tradito la mia fiducia? Mi ha esposta a un rischio enorme, come ha potuto?
Lo chiedo a Lunetta, che sospira e comincia a raccontare: non molto tempo prima lui l’ha cercata per scambiare due parole. È in pensiero per me, questa mania degli altri Ranghi non vuol passare, dice. E ha pure accennato a qualche nottata inquieta, ma senza specificare di più. “Se vuoi un consiglio” mi bacchetta, “è ora di finirla con i capricci.”
Sicuro, ho torto io anche se è lui che è corso a spifferare; sono io che non gli ho lasciato scelta.
Nel frattempo abbiamo raggiunto l’entrata dei grandi magazzini, lei elettrizzata come fosse Natale, io agguerrita come una nube di vespe: che la mia fede in quest’uomo non sia poi così ben riposta? Li avrò mal giudicati entrambi? Lunetta si volta verso di me e mi prende le mani, paziente: “Milo ti ama e si preoccupa per te, che c’è di male? Lo vedessi io uno straccio di interessamento simile! Hai un lavoro prestigioso, fai la bella vita: mi spieghi qual è il problema?”
La retorica del suo quesito pone fine alla conversazione: non saprei descriverle il mattone che mi schiaccia il petto ogni sera quando mi stendo, e comunque, a giudicare da come si tuffa fra le file di abiti appesi, non credo che starmi a sentire le interessi poi molto. 

La notte prima dell’appuntamento col medico del lavoro ho avuto un incubo. Camminavo fra fitti cespugli, ero sola ed era buio, ma percepivo ugualmente il profilo nero della collina. Non ero in grado di capire dove fossi, proseguivo e proseguivo, ma sarebbe più corretto dire che scappavo, mentre la boscaglia attorno a me crollava in pezzi. Poi si alzava un vento gelido e i frammenti mi volavano incontro, senza smettere di riflettere il mondo appena scomparso. Inutile poggiare i piedi sul terreno intatto, ovunque nuove folate mi investivano in pieno.  
All’improvviso ho spalancato gli occhi in un sussulto.

Lo studio in cui riceve il Dottor Cautiverio è di un bianco asettico che suggerisce estrema pulizia, ma che allo stesso tempo trasmette un sordo e serpeggiante malessere, pronto a trasformarsi in ansia vera e propria da un minuto all’altro. Lui, però, non rileva il mio disagio - o forse lo ignora deliberatamente. Dopo avermi invitata con freddezza a prender posto sul divano, dà il via a uno spiacevole interrogatorio, che mira a riscostruire ogni mio passo all’interno della Zona Cinque. 
Non so se scoppiare in lacrime o rotolarmi dalle risa. La situazione è grottesca, come quelle dei film di serie zeta che mi appassionavano tanto da bambina, porcherie trasmesse dall’unico canale ammesso nella Zona dei miei. La vicenda proposta era sempre la solita: branco dei cattivi, gruppo dei buoni, schianto di fanciulla in pericolo, colpo di scena finale – che c’è di meglio dei complotti del tubo catodico per distrarre l’attenzione della gente dagli intrighi del mondo reale?  
Al termine del sofferto colloquio, il medico consiglia una terapia sottocutanea, seguita da analisi delle urine – che effettuerà tempestivamente non appena ne avrò consegnato un campione – e da successivi incontri di supervisione. Allungo perplessa la mano, prendo la ricetta che l’uomo mi porge e consulto con cura il referto, per scoprire dove va a parare l’ignobile trafila: confondere la mia memoria, fare dei miei ricordi una matassa indistinta in modo che io possa scordare ciò che ho visto - o almeno renderlo nebuloso, abbastanza da convincermi di aver sognato.
Lascio lo studio scossa e abbattuta: se il copione in cui mi muovo è davvero sempre il medesimo, dov’è l’eroe che mi salverà dalle grinfie dell’orco?



sabato 14 giugno 2025

19. CAPITOLO OTTAVO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Dopo lunga e attenta riflessione, ho acconsentito alla richiesta di Milo: il nostro weekend al mare sta per diventare realtà. Le previsioni del tempo assicurano due giorni da favola, perciò ci stenderemo sulla sabbia per arrostirci a dovere. Milo conosce un piccolo golfo raggiungibile in un paio d’ore, un incantevole angolo di paradiso che alla Classe Quattro è consentito visitare: non vedo l’ora di gustare pesce fresco sul molo, sorseggiando piano prosecco ghiacciato.
Solo una piccola nuvola ha offuscato i preparativi, una sua idea che mi ha lasciata di stucco: con un sorriso innocente ha proposto di non mettere in valigia i nostri telefoni cellulari.
Inizialmente ero contraria. È da sciocchi, lo so, ma non posso impedirmi di aspettare notizie dalla Zona degli artisti; in questi giorni controllo i messaggi a ogni occasione, perfino in bagno, e ogni sera prima di addormentarmi rileggo le poche frasi scambiate quella notte con Jan. Le mie fantasticherie, via via più audaci, sono un tormento; non faccio che immaginarmi mentre dipingo al suo fianco, tristemente consapevole del fatto che non avrei il fegato di contravvenire alle regole. Pur desiderandolo, non sono pronta a combattere tanto drasticamente il Sistema. 
Però pagherei per imbattermi in lui un’ultima volta. Ho questo film, in proiezione stabile nel vasto multisala della mente, in cui lo sorprendo furtiva alle spalle; lui si gira, mi riconosce e si apre nel più spaziale sorriso di sempre. 
Ovviamente non mi sogno nemmeno di esporre questo turbine di pensieri a Milo, pertanto la mia obiezione si limita a un semplice: “Che succede se ci cercano?”
Ma lui ha la risposta pronta: “Non mancheremo a nessuno. Sono solo due giorni. Non siamo tenuti a essere sempre reperibili, approfittiamone.” 
In effetti uno dei tanti privilegi del Rango Quattro è una maggiore libertà di movimento rispetto ad altri, il non dover dare costantemente conto dei nostri spostamenti – a patto che si tratti di cosa da poco. La Commissione ci ha riconosciuto settantadue ore di autonomia, ed è raro che le sfruttiamo appieno. 
E va bene, mi arrendo: magari mi accorgerò di quanto sia migliore la vita senza quel dannato aggeggio.

Trascorriamo il pomeriggio su una spiaggetta ventilata, io leggendo pigramente un libro, lui osservando i bambini che si rincorrono sul bagnasciuga. Mi accorgo, sollevando sorpresa il capo dalle mie pagine, che una di loro porta addosso una pesante felpa grigio topo, un affare informe che stride orribilmente coi costumini fantasia esibiti dai coetanei. Si tratta di un esserino esile con lunghe trecce color miele, che quasi scompare nella vastità del suo abbigliamento. Somiglia dannatamente alla bimba che ho scorto nel parcheggio al quartiere degli artisti, in occasione della mia serata d’addio; ne è la fotocopia. Ma non c’è possibilità che sia qui, non c’è forza su questo pianeta che avrebbe potuto sradicarla dalla sua Zona per catapultarla quaggiù, a un passo dalle onde assieme a noi. Perciò mi disinteresso di lei e del suo assurdo pastrano per tornare con piacere al capitolo che mi attende.

Quando il sole inizia la sua discesa dentro l’acqua e la gran parte degli ombrelloni è ormai chiusa, io e Milo ci prendiamo per mano e ci avviamo verso la locanda in cui abbiamo riservato un tavolo. Sono felice e in pace con me stessa; mi sento protetta vicino a lui, gli sono grata per avermi condotta quaggiù.
Prendiamo posto sulla verandina, consultiamo la generosa lista dei vini, attendiamo con impazienza l’arrivo delle portate consigliate dal cameriere. La voce delle onde che s’infrangono sulla riva giunge dolcemente fino a noi. Dal punto in cui siamo si gode di un panorama eccezionale, compresa l’ampia e regolare piazza in cui di recente hanno montato un palco. Non so cosa ci sia in programma, ma Milo dichiara di voler prendere informazioni: il prossimo a calcare quelle scene potrebbe essere proprio lui. È bellissimo nella sua camicia avorio, ha occhi solo per me; e sussurra, in tono appassionato, che avrà tutta la notte per dimostrarmelo.

Il mattino seguente, al risveglio, mi tasto la fronte per assicurarmi che il cerchio post alcolico attorno alle tempie non si sia materializzato sul serio. Milo mi prende in giro: “Qualche bollicina di troppo, vecchia mia? Non sei più quella di una volta!” 
Gli lancio un cuscino per dispetto, ma in realtà non mi sento ben ferma sulle gambe; preferirei restare in camera, e per fortuna a lui non interessa scendere in spiaggia: “La spensieratezza è il gol di questa piccola trasferta, possiamo prendercela comoda. Che ne dici di vedere come te la cavi alla Sfida?” 
La Sfida consiste nell’indovinare dai primi accordi il titolo di una canzone - lui suona e io indovino, se riesco, ma a questo gioco sono da sempre un fiasco. La penitenza, quando sbaglio, è un piccolo morso, che diventa un po’ meno affettuoso se non riconosco al volo una melodia delle sue.  
Verso le dieci, mentre Milo strimpella ancora, mi alzo dal letto e mi avvicino allo specchio del bagno, grande abbastanza da mostrare la figura per intero.
“Credi che dovrei tagliarmi i capelli?” chiedo, valutando attentamente il mio riflesso.
“Secondo me è l’ora di raparsi a zero” scherza, riponendo con cura la chitarra nella custodia - è una figlia per lui, non si sognerebbe mai di partire senza.
Sbuffo. “Sto parlando seriamente. Ho bisogno di cambiare. È da quando mi ricordo che ho i capelli così; potrei tingerli, che dici? Fare le mèches? Due colpi di sole?”
“Sei bellissima” dice baciandomi sulla guancia. “Muoviamoci, o non rimarrà niente per colazione.”

Al nostro rientro in città, qualche ora più tardi, trovo ad attendermi in segreteria una nota vocale lasciata da Lunetta: non ci becchiamo da ere geologiche, non è che ho voglia di un pomeriggio esclusivamente al femminile? 

giovedì 12 giugno 2025

18. LA PAROLA ALL'AUTORE

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Maschile sovraesteso
Cari amici,

ho concepito questo blog affinché sia uno spazio rispettoso e aperto al dialogo. E per restare in linea con tale obiettivo, desidero adesso occuparmi di una materia che ho molto a cuore: la riflessione sul linguaggio inclusivo e le scelte da me compiute in merito. 
È un argomento importante, sul quale ho ragionato a lungo prima di iniziare a scrivere; ed è anche una preziosa sfida linguistica e culturale, che crea stimoli sempre nuovi. 
Da principio ho preso in considerazione diverse possibili soluzioni: l’uso dell’asterisco, l’uso della schwa, la scelta di affiancare voci maschili a termini femminili. Ciascuna ipotesi era a suo modo interessante, e nasceva dal fondato bisogno di rendere il linguaggio più equo. Dopo aver valutato il panorama con attenzione, ho scelto di avvalermi del maschile sovraesteso - quello che in italiano è tradizionalmente usato per riferirsi a gruppi misti o non specificati. 
Non ho deciso in questo senso per ignorare il dibattito; anzi, ritengo essenziale l’esplorazione di tutte le alternative che la nostra nobile lingua ci offre. 
Ma tradurre tutto ciò dalla teoria alla pratica avrebbe richiesto grandi competenze in materia; avrei rischiato di diventare involontariamente più discriminante e ambigua, oppure di generare fraintendimenti - compromettendo la chiarezza del messaggio che voglio trasmettere. 
Usando il maschile, intendo includere tutte e tutti, senza emarginare nessuno. Suppongo che questa scelta possa non essere in sintonia con la sensibilità di alcuni, e mi scuso fin d’ora se doveste sentirvi feriti o non rappresentati: vi assicuro che urtare la sensibilità dei lettori non rientra nelle mie intenzioni.

Ancora un grande grazie per la vostra presenza.






martedì 10 giugno 2025

17. LA PAROLA ALL'AUTORE

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Nomen omen: il nome è un destino
Cari amici,

oggi vi porterò dietro le quinte della mia storia, in quella stanza segreta dove le parole sono scelte con cura e i nomirivelano
Sì, perché alcuni dei nomi che incontrate in “Oltre la Superficie” sono frutto di un’attenta ricerca: seguono la regola del nomen omen - il nome è un presagio - come a dire che il nome anticipa l’essenza dell’oggetto cui è attribuito.
Magari non lo si nota subito, ma quel nome porta con sé un indizio, un piccolo enigma, un gioco di parole. 
Non tutti i nomi che ho scelto rispettano questa logica, ma alcuni sì: li avete colti?
Scrivetelo nei commenti 🤗




domenica 8 giugno 2025

16. CAPITOLO SETTIMO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Una vibrazione leggera rompe l’oscurità e mi desta all’istante. Le lancette fluorescenti della sveglia indicano le tre passate da quindici minuti. Guardo Milo, che per fortuna dorme come un masso dandomi la schiena: il suo lieve russare mi fa compagnia mentre attraverso la stanza. 
Afferro dal comò il cellulare illuminato; in alto, nell’angolo del display, è comparsa la nota bustina stilizzata, a informarmi che qualcuno mi sta cercando. Il mittente è sconosciuto, ma la corrente che m’invade decisamente non lo è. 
“Che fai?” leggo, domandandomi come diavolo abbia fatto Jan a entrare in possesso del mio numero: sono settimane che non ci vediamo e tutti i rapporti che ho avuto con lo studio sono stati gestiti dall’ufficio, nessuno mi ha mai contattata direttamente - di me non conoscono neppure l’indirizzo e-mail. Poi realizzo che se il mio telefono, come per magia, ha abbandonato la borsa per ricomparire sul tavolo del Maestro, forse il messaggio di stanotte non è poi un gran mistero. Per non fare rumore, mi sposto sul divano in salotto; non voglio disturbare Milo, così come non voglio sentirlo fare domande.
Sospiro e mi accomodo sui cuscini, studio il cielo stellato oltre il vetro della finestra. Rimango immobile per un po’, ma presto un nuovo bip mi obbliga a leggere ancora: “Dove sei adesso?”
Mi faccio coraggio e inizio a digitare. Rispondo che sono a casa, ma non riesco a dormire, poi però mi blocco, incerta su come andare avanti. Scriverei chilometri, parole su parole nella speranza che lui possa conoscermi un po’ meglio. Che delizia sarebbe spiegare ciò che faccio, le cose in cui credo! Vorrei capisse che sono estranea anni luce alla marmaglia schiava del proprio Rango che frequento nel quotidiano.
Invece domando a lui perché non dorma, sentendo la distanza fra noi evaporare per incanto, i nostri pianeti così lontani fondersi in uno stesso universo; assaporo ogni secondo mentre aspetto la sua replica - ma l’agognata risposta non giunge mai. 
Delusa - e un po’ allarmata - torno a stendermi pian piano accanto a Milo, che nel frattempo non si è mosso di un millimetro. Supina, gli occhi spalancati nel buio, fantastico per qualche minuto sulle frasi a effetto che avrei potuto usare. Solo quando spunta l’alba noto, con un brivido, che il familiare russare del mio ragazzo è stranamente sparito dalle tre e un quarto di questa mattina.   

Il lunedì si preannuncia temperato e gradevole, perciò preferisco lasciare l’auto davanti a casa e godermi una passeggiata. La strada da fare non è molta se si attraversa la pineta, così indosso un paio di comode sneakers in tinta col mio completo da lavoro e mi avvio in quella direzione. Il cielo è di un azzurro chiaro e invitante, appena velato da qualche cirro, e presto scopro di non essere la sola sul sentiero che si inerpica fra gli alberi in fiore. Diverse persone, più ritardatarie o più rapide, mi superano a piedi e in bicicletta – mezzo di cui è lecito avvalersi solo per coprire la distanza fra un luogo e l’altro, mentre esiste un categorico divieto del suo utilizzo per allenamenti o competizioni agonistiche. Io cammino senza urgenza, inspirando ossigeno a ogni passo e abbandonandomi ben presto a inopportune e sconsiderate chimere. 
Sul set sconosciuto del video che proietta la mia mente riconosco Jan, che mi corre incontro appassionato: “Non ci credo, questo è un miracolo! Come sei arrivata qui? Ti penso tanto” e mentre continua a ripeterlo, mi guarda come se nell’intera galassia non ci fossi che io. Ho l’impressione di trovarmi racchiusa all’interno di una bolla di sapone: è fragile, tra breve scoppierà, ma allo stesso momento è un dono potente. È uno spazio unico, solo per noi. Non sto più nella pelle dall’eccitazione: che gioia trovarsi a tu per tu, da soli. Jan mi prende per mano, intreccio le dita con le sue, e la stessa scossa elettrica che ho sentito all’atelier mi attraversa nuovamente. Immagino di abbandonarmi alle mie emozioni più intime, pensando all’effetto domino: una miriade di tessere che cadono l’una sull’altra, mutando i destini come per magia. Ed è per magia se adesso giungo a questo punto, incredula e splendente fra le sue braccia. 
Ah, se solo fosse vero.
Ma non ho modo di bearmi delle mie fantasie perché, come varco la soglia dell’ufficio, Daria si alza e accosta frettolosa la porta alle mie spalle. Mi chiedo se abbia perduto il cervello: da una vita soffre di claustrofobia, in tre anni che lavoriamo assieme non mi ha permesso di chiudere una singola volta. Apro la bocca, ma lei scuote la testa e col mento indica una busta bianca appoggiata sulla tastiera del mio computer. L’afferro, me la rigiro fra le mani, cerco i suoi occhi seria seria: “Sai chi l’ha lasciata?”
Lei si stringe nelle spalle, e in effetti non si notano segni o timbri di alcun genere, almeno all’esterno. Non rimane che aprirla. Con sgomento, scopro che si tratta di una convocazione per visita medica straordinaria, ma non trovo indicazione del perché dovrei vedere il Dottor Cautiverio; di solito vado da lui una volta l’anno, per il controllo di routine, come tutti i miei colleghi.
Daria, che siede composta alla scrivania, muore dalla voglia di conoscere il contenuto della lettera, ma ha il buongusto di restare in silenzio. Continuiamo a lavorare senza fare commenti.
La cosa non mi piace, ha certamente a che fare col mio ultimo incarico, eppure nessuno aveva accennato a una prassi del genere. Perché visitarmi? La faccenda è sospetta, e stabilisco di tenerne Milo all’oscuro: non desidero opinioni che mi turberebbero maggiormente o che mi manderebbero in bestia. E se accennassi a Lunetta, tanto per sfogarmi un po’? Si è sempre dimostrata fidata e credo si asterrebbe da rimproveri del tipo “ti sei fatta coinvolgere troppo.”
Ma la situazione è complessa, non sono convinta; meglio aspettare a far parola con chiunque.

Non ho notizie di Jan da due settimane. Tutto tace e non stento a immaginarne il motivo: che gli sia capitato qualcosa? L’eventualità mi spaventa a morte, così come mi terrorizza l’idea che abbia già esaurito la voglia di cercarmi - e probabilmente è davvero questa la soluzione dell’enigma, anche perché cosa potrebbe fare? Certo non otterrà il permesso di farmi un salutino veloce.
Milo è stato stranamente taciturno negli ultimi giorni. Carino come al solito, certo, ma al contempo all’erta: in un paio di occasioni, voltandomi all’improvviso, l’ho pescato a fissarmi con un’espressione inedita, indagatrice. Vuol sapere continuamente come sto, e mi ha proposto una breve vacanza; per staccare, ha detto. Tutto l’interesse per il diverso che ho mostrato nel periodo di permanenza al quartiere degli artisti lo ha impensierito, e mi spiace ammettere che ci ha allontanati un bel po’: chiaramente crede che dare priorità alla coppia possa farci un gran bene. 
Ma sarà soltanto questo il suo intento? Oppure ha voglia di allontanarmi dalla Città? 



sabato 7 giugno 2025

15. ESPANSIONI


(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. 
Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Come immaginate, cari lettori, un incontro a quattr’occhi fra Liz e Jan… al di fuori delle proibitive regole del Sistema? Cosa succederebbe se il Temet Nosce fosse il bar di una città qualunque, simile a quello in cui beviamo un drink prima di cena?

Sotto il nome Espansioni trovate quella parte di narrazione che segue le esistenze dei nostri personaggi, ma non compare nel testo originale; perché il mondo di Liz è un organismo in espansione

Al Temet Nosce
Il Temet Nosce non dista molto da casa mia, mi basta camminare una ventina di minuti e lo raggiungo; all’arrivo ti trovo che già mi aspetti, seduto su una delle antiche panche in pietra del locale. Mi fai cenno di sedere, poi dai una voce al cameriere e ordini due birre chiare; io mi metto comoda e ti domando immediatamente del lavoro. So che al momento sei impegnato nell’ennesimo nuovo progetto – hai ottenuto uno stand alla prossima fiera cittadina, un evento che richiamerà artisti da ogni angolo del paese, alcuni riconosciuti a livello internazionale – e sei tutto preso a realizzare una serie di opere in vista di quella data. 
Ti avvicini e mi porgi il cellulare, sul cui schermo scorre una teoria di foto da cui intendi trarre ispirazione: “Non faccio che sfogliare cataloghi polverosi alla ricerca di scatti da riprodurre su tela. Ma non sono soddisfatto, ho bisogno di visionare altro materiale; potrei passare da voi, che dici? Dovrà pur esserci qualcosa di interessante.”
“Mmm… Sarei d’accordo se quella in cui lavoro fosse una biblioteca di conservazione. Noi non vantiamo un patrimonio tanto ricco, per lo più i nostri utenti vanno a caccia di polizieschi o romanzi rosa… Non mi sembra roba che possa fare al caso tuo.” 
“A breve ricorreranno seicento anni dall’avvio dei lavori di costruzione della cattedrale: sarebbe un ottimo soggetto da presentare, non credi?”
“È perfetto” annuisco. “Potresti rivolgerti all’archivio, con loro avrai di certo maggiore fortuna. Farò una chiamata, vediamo se salta fuori qualcosa d’incoraggiante.”
Di colpo ti illumini. “Magnifico” sorridi.
Allunghiamo i vuoti al ragazzo che serve ai tavoli e ordiniamo un secondo giro.
Il tuo programma non si limita all’esposizione dei dipinti, ma prevede l’istituzione di un laboratorio per chiunque voglia cimentarsi con fogli e colori. Illustri nel dettaglio le idee che hai per la mostra, e io prometto di iscrivermi al tuo seminario; poi, insieme, sfogliamo il brogliaccio che non manchi mai di portarti appresso. Sei animato dall’entusiasmo, e non soltanto per l’iniziativa presente; con una punta d’invidia, capisco che stai vivendo la vita cui tendevi fin da bambino. 
Assorta nella contemplazione delle tue bozze, trasalisco, impreparata, quando cambi bruscamente argomento: 
“È vero che stai pensando al grande passo?”
Ci fissiamo, sbigottiti entrambi. È chiaro che questa uscita ha colto di sorpresa perfino te. Chissà dove hai pescato un’informazione tanto riservata - per non parlare dell’idea di portare le nostre confidenze a un livello così intimo.
Rimango in silenzio per un po’, cercando di valutare cosa si nasconda dietro questo interessamento: è semplice curiosità o c’è dell’altro?
“No, nessuna campana sta suonando a festa - almeno per il momento” mormoro infine.
“Almeno per il momento…” ripeti, come a soppesare ogni sillaba. 
“Bah, forse è vero” ammetto, col cuore che martella in petto e il tono sulla difensiva, “forse comincio a chiedermi se non sia il caso di fare un passo avanti… non sono più una ragazzina, sai” rincaro, con la netta sensazione di dovermi giustificare davanti a te.
Ma tu assumi un’aria indecifrabile, poi chiedi, con calma forzata: “E questa pensata te la sei fatta da sola?”
La confusione in cui precipito è evidente. Arrossisco, poi bevo un sorso più lungo del normale solo per guadagnare tempo. 
Hai toccato un nervo scoperto – e comunque pensare con chiarezza sta diventando impossibile: la quantità di liquido nel mio boccale è prossima allo zero e la nebbiolina alcolica che mi fiorisce nella mente si fa più densa di minuto in minuto.
“Non puoi prendere una decisione simile in base alle aspettative di un altro. Devi essere tu, nel profondo, a desiderare questo tipo di legame. Se accetti unicamente perché credi di fare un piacere al tuo ragazzo o alla famiglia, finirai col pentirtene il giorno dopo.”
Non c’è traccia di paternalismo nella tua voce, perciò inizio a rilassarmi un po’. 
“Allora il trucco sta nel fare la fidanzatina a tempo indeterminato?”
“Il trucco sta nel non tradire se stessi. Andare contro se stessi non funziona. Mai. Prima o poi arriverebbe il conto da pagare. Salato” precisi, assaporando piano la tua pinta dorata. “Non è il resto del mondo a definire chi sei. È la tua anima a rivelarlo.”
Mi stringo nelle spalle: “Non sarà che giro a vuoto mentre tutti si decidono a diventare grandi?”
“Non sarà che esistono modi diversi per crescere?” replichi senza scomporti. “Stai solo ripetendo a pappagallo una lezioncina che non ti si addice. Non è necessario l’abito bianco per provare che sei adulta.” 
Ecco che viene alla luce un aspetto per me inedito della faccenda. Dalla culla in avanti mi è stato insegnato che, sul pianeta terra, certi step sono necessari: conseguire un titolo di studio, trovarsi un’occupazione stabile, crearsi una famiglia. Secondo i più, non ci sarebbe alternativa a questa catena infinita di incroci obbligati. 
Ma la conversazione col mio vecchio compagno di scuola riporta a galla la mia indole possibilista e dubitativa: l’esistenza segue davvero un copione già scritto? O, al contrario, siamo noi i soli autori della nostra storia?






14. LA PAROLA ALL'AUTORE

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Metamorfosi e Rinascita: la Libertà di Essere
Segnato da una legge immutabile, il bruco è disposto a tutto pur di rinascere - accetta addirittura che il solo mondo da lui conosciuto finisca in brandelli.
E la stessa natura che vincola il suo destino è valida anche per noi: se vogliamo crescere, dobbiamo lasciare che la nostra vecchia immagine crolli, che si dissolva. 
Non sono un’esperta e non intendo montare in cattedra. Semplicemente, vi porto la testimonianza di ciò che succede in me ogni singolo giorno: avverto il mio essere che chiede più luce, rivendica lo spazio necessario a realizzarsi. È proprio a causa sua che ho scelto di imprimere una farfalla sulla pelle del mio braccio - e fortunatamente, non trovandomi in Zona Quattro, posso esibire una figura reale anziché un semplice susseguirsi di lettere nere.
Ci tengo a precisare che questa cieca fiducia nel viaggio evolutivo, così come altri concetti espressi nel blog, non è farina del mio sacco. Si tratta di insegnamenti in cui mi sono (casualmente?) imbattuta nel corso degli anni, e che ormai rappresentano le colonne portanti del mio universo; sono i mattoncini con cui costruisco il mio itinerario personale… e mi è venuto spontaneo presentarli anche a voi 😃

Nota: queste riflessioni devono molto alla visione della signora Giorgia Sitta. 
Con gratitudine. 

Il desiderio di scrivere non si presenta alla mia porta sempre con la stessa veste: talvolta lo sento bussare in maniera pacata e talvolta è un fiume in piena, un’urgenza che mi si agita nel plesso solare, scompigliandomi tutta. 
Ma in ogni caso, è sempre accompagnato dalla curiosità di percorrere nuove strade - e poco importa che la novità stia nei contenuti oppure nella forma. Ogni pezzo che realizzo, a conti fatti, è un piccolo laboratorio di tentativi, di sperimentazioni.
Nel prossimo post vi imbatterete in una delle mie sfide favorite: la narrazione in seconda persona, compiuta con quel “tu” intimo e familiare che racconta una vicenda di cui siete protagonisti. Dopo essermi immedesimata nella nostra Liz, calerò voi lettori nei panni di uno degli altri personaggi… chissà di chi? 🤔
Se siete curiosi di saperne di più, tornate a leggermi sabato mattina! Vi aspetto 🩷

Nota: l'idea di raccontare in seconda persona deve molto a Stephen King, a mio giudizio il miglior narratore di storie; pur avendo riscontrato in altri autori questo modo di scrivere, è grazie a King se ho deciso di tentare anch'io questa strada.



13. CAPITOLO SESTO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Riuniti all’interno dell’edificio, ci salutiamo levando in alto i calici colmi fino all’orlo. La qualità dello champagne è quella che preferisco, mi spiace solo che Jan non possa assaggiarlo - a causa del suo Rango, è escluso da qualsiasi tipo di brindisi: niente alcol per la Classe Otto. 
“Non fa nulla, non berrei quella roba in ogni caso” mi dice, e io ammutolisco, intuendo di averlo guardato con pietà. Balbetto imbarazzata qualche frase a mo’ di scusa; non volevo umiliarlo.
La fine del lavoro mi riempie di sgomento, i miei rapporti col mondo dell’arte sono giunti al capolinea. Chi è presente al party mi invita cortesemente a tornare quando voglio, ma è solo una formalità: il mio permesso temporaneo scade a mezzanotte, non ho ragioni di chiedere una proroga. La carta elettronica che mi consente l’accesso verrà disattivata e allora addio giratine illimitate in questa Zona.
Il Maestro saluta con calore tutti coloro che gravitano intorno alla galleria, illustrando il mio lavoro ed elogiando il mio impegno. La maggior parte di queste persone sono ormai volti noti, altri li incontro solo questa sera - e mai avrò modo di approfondire la conoscenza. Arrossisco di piacere ogni volta che la mia professionalità viene ribadita: è una serata d’incanto, che peccato non avere Milo al mio fianco.
Verso le undici gli artisti cominciano a ritirarsi e io realizzo, con un macigno nello stomaco, che il congedo è ormai imminente. Il Maestro mi saluta con una stretta energica, mi ringrazia per il tempo che gli ho dedicato, mi scorta fino all’ingresso dove mi attendono borsetta e soprabito.

Mentre guido verso casa, una lacrima scende silenziosa lungo la mia guancia. Il quartiere degli artisti è alle mie spalle, tra breve approderò di nuovo al Rango Quattro. Vorrei mandare a Milo il messaggio della buonanotte, mi aiuterebbe a sentirmi meno sola; con una mano cerco il cellulare, frugo e frugo, ma al tatto non sento niente. Accosto al marciapiede, spengo l’auto, rovescio il contenuto della borsa sul sedile accanto al mio: chiavi, rossetto, portafoglio, scontrini vari, penna e block notes, fazzolettini, aspirina. C’è di tutto in questa baraonda, ma il telefono manca decisamente. Piegandomi fra i sedili, controllo che non sia caduto nell’abitacolo; ma anche per terra non trovo nulla.
Mi passo una mano fra i capelli, sbuffo e scendo di macchina irritata. Lo avevo con me alla galleria, dev’essere rimasto là. E adesso non c’è che una cosa da fare: tornare indietro. Ho ancora un po’ di tempo prima che scada il pass, se mi spiccio ce la faccio a controllare di persona.
Ripercorro la strada appena fatta più veloce che posso, imbocco via dei Salici, parcheggio, mi avvio allo studio. Non sento più chiacchiere né musica, però la luce è accesa per fortuna; probabilmente ci sono gli Ausiliari a riordinare l’ambiente.
La porta è chiusa, ma ho imparato dal Maestro il trucchetto per aprirla dall’esterno. Procedo per i corridoi come una ladra, desiderosa di recuperare ciò che mi appartiene e di filarmela al più presto. Arrivata all’altezza dello studio, un rumore lieve rivela che non sono sola dentro l’edificio; come sospettavo, staranno radunando i bicchieri. Sarà Jan? mi chiedo, e nel pensarlo sento un fremito lungo la schiena. Do una sbirciatina, pronta a giustificare la mia presenza, ma le parole mi muoiono in gola: è davvero lui l’uomo in piedi al centro della stanza, ma non è affatto occupato a raccogliere i vuoti. Stava dipingendo, pennello e tavolozza sono a portata di mano, è evidente che ha mollato tutto sentendomi arrivare. Ci guardiamo in silenzio.
“Non denunciarmi alla Commissione” dice poi.
“Non ne avevo l’intenzione” replico, leggermente piccata: mi reputa tanto stronza?
“Scusa, non l’ho detto per offenderti, ma secondo la legge non posso tenere un pennarello in tasca, lo sai. Non so che farebbero, se mi scoprissero.”
Torna a guardare il suo dipinto, più rilassato, e allora azzardo uno sguardo pure io, restando di sasso: sul cavalletto fa bella mostra di sé “Oltre la superficie”, il MIO quadro, il quadro che tanto ho amato in questi giorni. Mi avvicino stupefatta e Jan sorride, il primo vero sorriso che mi abbia rivolto in settimane.
“Avevo notato come lo studiavi, sono contento che ti piaccia.” Ne va visibilmente fiero.
“Non rappresenta semplicemente via dei Salici, vero?”
“Vero. È il percorso della mia esistenza: apparentemente non c’è un mattoncino fuori posto e l’asfalto luccica, ma quella è giusto la superficie. Come la mia vita, la strada è un grande inganno: se cerchi di andare oltre, se scavi nel profondo, non troverai che strati di nero, pronti a soffocarti.”
La pioggia è ormai cessata e, al di là delle vetrate, la luna appesa nel cielo d’inchiostro getta la sua luce tremula sopra di noi. Ammiro la tela quasi in trance, ammutolita. Inizio a comprendere quel grido di dolore che sprigiona con forza, e adesso l’apprezzo ancora di più.
“Che fa uno come te in Classe Otto?” Sto andando sul personale, ma ho il fondato sospetto che la sua diffidenza appartenga al passato.
“È il rango di tutti i miei fratelli, così ci sono finito anch’io; un errore, credo, una decisione frettolosa, oppure… chissà? si vede che erano a corto di Ausiliari. Mio padre ha tentato di rimettere a posto le cose finché è vissuto, ma non gli hanno dato retta: una volta che sei inquadrato, nessuno può farci più niente. Desideravo con tutta l’anima disegnare, fare ciò che secondo il resto del mondo dovrei odiare. Mi sento nato per questo, e quando sono approdato qui il Maestro mi ha sostenuto, aiutandomi a non tradire me stesso. Così facendo, si è assicurato la mia gratitudine in eterno; voglio dire, rischia molto anche lui, se mi beccassero...” la frase rimane sospesa a metà, ed entrambi immaginiamo l’asprezza della Struttura, con le sue pareti grigie, i cancelli e le finestre troppo alte. 
Poi, nella quiete della notte, udiamo un trillo melodico provenire dalla stanza a fianco.
“È mio” spiego, “perciò sono tornata, non capisco come ho fatto a perderlo. Comunque che ci fa di là? Io non ci ho proprio messo piede.”  
“Mmm... nell’ufficio del Maestro? La porta è sempre aperta, però nessuno si sogna di entrarci:”
“Allora deve averlo trovato da qualche parte e avercelo messo lui quando me ne ero già andata.”
“Mmm… sì, chissà… ma è uscito subito dopo di te, non ne avrebbe avuto il tempo. Se invece lo avesse portato lì prima…”
“Senza avvertirmi che lo aveva trovato? Stai insinuando che mi ha derubata?”
“Il Maestro non è un borseggiatore” mi assicura in tono di rimprovero, “forse non sapeva di chi fosse… o forse ha trovato un mezzo per farti tornare”, e qui inarca un sopracciglio in modo eloquente.
Già, forse. Alla sola idea mi sento importante. Possibile che sia andata così? O si stanno burlando di me? Purtroppo non posso star qui a investigare, sento di nuovo il cellulare e mi volto per andare a prenderlo; ma Jan mi afferra per un braccio e il suo sguardo cade sulla parola tatuata intorno al mio polso. La sfiora interdetto con la punta delle dita: “Farfalla” legge.
“Metamorfosi, trasformazione, rinascita” mormoro, rivelando il significato nascosto che attribuisco all’insetto – e che so di poter rivelare a lui, a lui che adesso è tanto vicino da piovergli fra le braccia. Stiamo fermi in silenzio, elettrici, in attesa di qualcosa di più. Che bello starti accanto, mi sorprendo a pensare, mentre pigre nuvole di passaggio, sospinte da una brezza leggera, celano la luna per un poco, spegnendone i raggi argentati. 
Poi d’un tratto mi riscuoto, spezzando l’incantesimo che ci avvolge. Volo a recuperare il telefono e senza nemmeno salutare scappo sulla strada; scorrendo la lista chiamate vedo che Milo cerca di rintracciarmi da mezzora. Prima di rimontare in macchina e abbandonare il quartiere per sempre, lancio un lungo sguardo alla scena che ho dinnanzi: ai marciapiedi, alle lunghe file di lampioni, alla carreggiata scura che conduce fuori verso il nulla - e che annienterà, come ha fatto con Jan, ogni possibile alternativa a un domani che è già stabilito.


Chi non si è mai sentito come Jan, intrappolato in una dimensione che non è la sua? Io sì, assolutamente!
Grazie mille per aver scelto di continuare a seguire Liz nelle sue avventure! 🩷



12. CAPITOLO QUINTO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Il Maestro sembra amare molto il mio modo di relazionarmi con lui e di condurre l’intervista; io ne sono lusingata, mi sento totalmente a mio agio. Inizialmente ci vedevamo in atelier, dove dipinti, strumenti e colleghi erano a portata di mano. Tutto è servito a integrare il mio lavoro, ma dopo un po’, col naso saturo di acqua ragia, ci siamo spostati ai giardini dall’altra parte del viale.
La Zona Cinque ha la forma di un grande stivale, noi ci troviamo in un polmoncino verde situato nel tacco; la tranquillità che respiro mi stimola almeno quanto la perizia degli artisti. Ovunque mi volti scopro deliziosi lampioncini in stile classico, che di sera irradiano un leggero alone rosato; e le aiuole sono cariche di fiori, di ogni specie e di ogni varietà. Lontani dal caos del centro, non c’è posto per bombolette e graffiti, ma la creatività trabocca ugualmente da ogni angolo: sarà dura tornare ai toni smorti del mio quartiere. 
Nei pomeriggi di sole noto scolaresche vitali ma ben disciplinate che ritraggono il paesaggio colorato tutt’attorno - per i disegni dal vero è l’ideale, e se mentre lavorano potessero giovarsi dell’esecuzione di qualche aria di Bach, lo scenario da fiaba sarebbe perfetto. So che spesso i ragazzi si trattengono fino a tardi per cogliere la grazia della fontana monumentale, i suoi impareggiabili giochi di luce quando scende il buio. In più di un’occasione, il Maestro si è avvicinato agli studenti per elargire qualche consiglio, senza mai far pesare la propria fama né palesare la sua identità; gesto nobile ma totalmente inutile, dato che l’intero Rango conosce le sue opere a menadito. Molti sembrano incuriositi dalla nostra assidua presenza, noto che si voltano a più riprese per capire cosa stiamo combinando. E non potrei giurarlo, ma una volta ho avuto la netta impressione che stessero dipingendo noi due invece del melo alla nostra destra - sentivo qualcuno che ci squadrava con vigore, lo percepivo addosso mentre eravamo seduti a chiacchierare. Mi sono accostata agli studenti per scoprire chi fosse, ma sui brogliacci non ho scorto altro che rami frondosi. Allora ho alzato gli occhi, cercando altrove, e ho scorto Jan sul ciglio della strada.

Seduta su uno degli alti sgabelli del Temet Nosce sorseggio una birra chiara con parsimonia: Milo è ancora al check sound, è presto per alzare il gomito. Il locale, con le sue pareti in pietra grezza e i suoi divanetti rossi e neri, è forse quello del centro che preferisco. C’è musica dal vivo quasi ogni sera e il barista, un capellone dai calzoni troppo calati, è uno che sa davvero il fatto suo. Il palco si trova giù dalle scale, sotto la strada, nella speranza che i vicini non si lamentino per il volume elevato. Con me c’è Lunetta, l’unica fra le girls che apprezzi la musica grunge - o forse ciò che apprezza davvero è il mio ragazzo: “Milo è fantastico, non sai quanto sei fortunata! Se penso che ha scritto una canzone per te, magari lo avessi io un corteggiatore così. È pure monogamo” e qui manda un minuscolo sospiro di rimpianto.
“Non è chiaro se quel testo parli o meno di me” correggo, ma sappiamo entrambe che sto facendo la modesta: la frangetta d’oro pallido della prima strofa fa un’eco perfetta alla mia zazzera bionda, e pure la parola farfalla tatuata sul polso non può essere una coincidenza. La colonna davanti a me è provvista di uno specchio, io scuoto la testa con garbo, in modo da far dondolare i pendenti che proprio Milo mi ha regalato – due brillanti finissimi che esaltano alla perfezione la sfumatura marina delle mie iridi. Strizzo maliziosa l’occhio al mio riflesso e devo riconoscere che Lunetta ha ragione, stasera sono io la creatura più fortunata del locale. Ed è così che mi sento, solo che la soddisfazione cieca di un tempo si è fatta traballante come una seggiola sbilenca. Non riesco a liberarmi dalla fissa che, se non mi avessero intrappolata a forza nella Classe Quattro, oggi sarei una persona diversa: una campionessa di tuffi, una danzatrice del ventre, una cameriera.
E se non mi conoscessi affatto? Se avessi tagliato fuori altre possibili facce di me stessa? Sono veramente io la donna che vedo nello specchio o è l’estranea che mi hanno cucito addosso?
L’idea che il mio tempo con gli artisti stia per esaurirsi non fa che tormentarmi, non posso neppure portarmi via un souvenir: la mia tessera acquisti è abilitata solo per la Zona Quattro, le compere in altri quartieri sono comunque escluse. Ma non voglio diventare malinconica, perciò accantono i cattivi pensieri e mi concentro sul gruppo che sta ancora accordando. Milo, sentendosi osservato, mi cerca fra la gente; io gli rammento con un sorriso che lo amo, poi il pubblico batte forte le mani e loro attaccano il primo brano della scaletta.

È quasi sera. Il cielo si va man mano scurendo e già da qualche ora, sulla nostra Zona, scende una pioggerella leggera, argentina, di quelle che ti inducono a lasciare a casa l’ombrello. Prediligo invece un impermeabile che mi ha regalato Milo, un indumento pregiato e nuovo di zecca, ovviamente adatto al buffet che verrà dato in mio onore. Lo afferro al volo ed esco per recarmi, un’ultima volta, al quartiere degli artisti.
Mentre faccio manovra per accedere al parcheggio, noto, indistinta nell’oscurità crescente, una figura minuta e apparentemente sola; una bimba in età scolare, inghiottita da una felpa abnorme, che pende dal suo corpicino come fosse più larga di diverse taglie. Mi fissa a lungo, le folte trecce bionde ai lati del visino smunto. La sua espressione, addolorata e consapevole, così simile a quella di un adulto, stona enormemente col resto della figuretta infantile; è come un pugno sul cuore, e l’intensità del suo sguardo mi porta a chiedermi se non mi conosca. Ma sono certa di non averla mai incrociata prima. 
Vorrei avvicinarmi e rivolgerle la parola, arrivare a spiegarmi la sua presenza; lei, però, scappa via veloce, dissolvendosi come pulviscolo in questo crepuscolo livido e bagnato. 
Turbata - e incapace di definire l'accaduto - prendo a camminare con ansia verso l’atelier.


11. ESPANSIONI


(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. 
Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Va sotto il nome di Espansioni tutta quella parte di narrazione che segue le esistenze dei vari personaggi, ma non è presente nel testo originale; perché il mondo di Liz è un organismo che cresce...

Milo e Liz al loro primo incontro
Arrivo al Temet Nosce in solitaria e con una calma fuori dal comune; stasera non dobbiamo esibirci, il resto della band non è con me e non sento quella familiare scarica di adrenalina che mi pulsa attraverso il corpo. 
Sono quasi contento di non essere in scaletta: siamo noi la punta di diamante su questo palco, è innegabile, ma un po’ di stacco permette di rinnovare le energie. Prenderò posto qui, su uno degli alti sgabelli, per gustarmi una pinta e godermi lo spettacolo. Emiliano, il barista più geniale di sempre, si avvicina alle spine non appena mi vede entrare. Sorrido e gli vado incontro: "Ehi, tutto regolare?” chiedo, proteso sul bancone. “Alla grande” fa lui e mi porge la media rossa che preferisco. Pago, lo ringrazio - gratificandolo di lauta mancia - e mi allontano, col progetto di sparire a uno dei tavoli in fondo al locale; sono poco meno di una celebrità, dopotutto, il mimetismo per me è una questione vitale. Ma mentre perlustro la sala con lo sguardo, una folta chioma bionda cattura la mia attenzione. Socchiudo gli occhi per mettere a fuoco e sulla mia rètina si delinea una giovane niente male, accomodata su una comoda poltroncina, le gambe snelle accavallate con noncuranza. Assapora un liquido trasparente, di quelli che non sai se si tratta di bombe alcoliche o di fresca acqua di sorgente fintanto che non li assaggi. Il quadro che vedo mi aggrada all’istante, ma ciò che mi incoraggia maggiormente non è l’incanto della sua figura, bensì la mancanza di compagnia maschile. Anzi, di compagnia in assoluto: la bella sconosciuta è sola come una stella in una notte senza luna.
Deciso a far colpo, sistemo i capelli con un gesto della mano; se si dimostra interessante la metà di quanto è carina, voglio che mi trovi irresistibile e che non mi lasci andare mai più. Voglio rapire il suo cuore e portarlo via con me, per custodirlo.
Chissà se è musicista anche lei, se di mestiere fa la cantante: potrei proporle un ingaggio con il mio gruppo, i Confidence. O magari mi trovo in presenza di una giornalista, di un’autrice… col pretesto di un articolo, potrei abbordarla in un baleno. Se anche lei fa parte del Rango Quattro, le alternative non sono poi molte…

*

Dopo aver chiesto il permesso di sedersi - ma senza preoccuparsi di ottenere risposta - questo straniero dall’aria familiare si accomoda sul divanetto davanti al mio, con una disinvoltura che gli invidio. Emana sicurezza da ogni poro della pelle, e io fatico a decidere se giudicarlo fastidioso o accattivante. In bilico fra le due ipotesi, forse preda di un curioso mix di entrambe, attendo che affronti un argomento qualsiasi: voglio proprio vedere se saprà catturarmi con un approccio originale o se ricadrà sui soliti, scontati convenevoli.
Appena apre bocca, il bel giovane si presenta come Milo, frontman di un gruppo piuttosto popolare; questa notizia basta a spiegare il senso di familiarità che provo in sua presenza - anche se, sottratto al palcoscenico e privato dell'aura da rockstar, risulta molto più terreno rispetto all’eroe delle sue esibizioni. Dopo una pausa a effetto, necessaria perché io digerisca la rivelazione imprevista, si gioca la carta della lusinga: “È ovvio che sei nata per calcare le scene, con un musetto come il tuo! Eppure non puoi far parte del comparto musicale, altrimenti ci saremmo già incrociati. Se stessimo in Classe Sei non avrei dubbi, scommetterei che sei attrice… ma non siamo nel quartiere giusto, perciò ho bisogno di qualche indizio in più… di un piccolo aiuto.”
“Come nei quiz in televisione?” chiedo, bevendo un sorso della mia acqua brillante; il ragazzo è garbato, dopotutto, forse posso allentare la vigilanza e concedergli una chance. 
Dalle nostre parti, come Milo ha appena ribadito, non gravita nessun genere di attore: appartengono tutti alla Zona Sei. A noi va l’onore di creare i personaggi e le battute che andranno a interpretare, ma spesso non siamo testimoni della buona riuscita del nostro lavoro: in Zona Quattro la programmazione teatrale e cinematografica si limita a copioni storico-culturali, alla biografia di questo o quel cantante di successo… mentre di tutte le vicende d’amore che ho contribuito a ideare non ho potuto visionare un solo fotogramma…





10. CAPITOLO QUARTO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Sono giorni che frequento la galleria d’arte di via dei Salici, in un quartiere in cui un mese fa non sarei stata ammessa. Questa Zona, per me, non solo era interdetta: era proprio inesistente, non mi accorgevo neppure che ci fosse. È tutto molto colorato, il contrasto coi nostri palazzi sobri non potrebbe risultare più netto, ogni superficie è coperta da foto o murales, mosaici e ritratti.
Anche l’abbigliamento delle persone è differente, tutti sfoggiano strane tinte ed elaborate acconciature, roba che nel mio rango passerebbe per stravagante, se non addirittura ridicola; nessuno qui indossa il beige o il crema. Tutto questo ovviamente non vale per il Maestro, che, dato il privilegio del successo, può permettersi tagli sartoriali di suo gusto. Trascorrere i pomeriggi con lui mi ha permesso di imparare molte cose, nozioni e trucchi che non avrei appreso altrove, un sapere antico che da generazioni si tramanda all’interno di questa Classe e che sa rinnovarsi per mantenersi vivo e continuare a crescere.
Ho visto le opere del Maestro, i lavori di suo padre - pittore prima di lui - quelli dei suoi studenti. In prevalenza quest’arte è astratta, materica, percorre e coinvolge ogni corridoio della mente. C’è anche una parte minore, dedicata al figurativo, ma è figurativo come non lo avevo mai visto. Trasmette angoscia, le ombre scure di chi vede la realtà com’è ma non riesce ad accettarla. Di chi non può cambiarla. Illuminato in un angolo da una luce soffusa, c’è un paesaggio che mi è rimasto dentro in maniera particolare. Si chiama “Oltre la superficie” e io, pur non comprendendo il titolo, intuisco subito che rappresenta via dei Salici, una via dei Salici distorta, priva della sua spumeggiante vitalità. I rami degli alberi sono un bruno intrico di artigli, la figura al centro della strada avanza disperata verso il nulla, l’opacità domina; solo l’asfalto brilla, ma ha un che di sinistro, d’inquietante. Si sente quasi l’urlo dell’autore intrappolato nella tela.
Mi hanno pescata ripetutamente a contemplare il quadro, da principio temevo di subire dei rimproveri. Invece no, il Maestro si limita a sorridere e studiarmi di sottecchi.
Qualcun altro osserva con cura le mie mosse all’interno dell’atelier, il suo sguardo mi segue costante da dietro gli occhiali, ben attento a non incrociare il mio. Nel momento in cui mi è stato presentato, tutto il mio essere ha esultato: eccolo! mi sono detta, un uomo alto che lavora da artista. Ma l’ottimismo è durato meno di un secondo. Jan è un semplice aiuto tuttofare: non dipinge, non può neanche tenere un pennello in mano, perché afferente alla Classe sbagliata.
Il suo compito si esaurisce mantenendo pulito lo studio, gli strumenti, scarrozzando il Maestro da un capo all’altro della loro zona - per motivi professionali, i Ranghi Ausiliari possono guidare veicoli anche superiori al mio, e vengono assegnati alle Zone in cui si ha bisogno di loro. Autisti, baristi, tecnici e camerieri si trovano ovunque, proprio per ottemperare a qualsiasi necessità.
In lui c’è qualcosa che mi incuriosisce, a partire dal nome: Janus è il dio degli inizi, dei passaggi, è una porta sul cambiamento - simbolo perfetto di transizione. La sua vicinanza pizzica le corde più nascoste del mio essere. Purtroppo non mostra particolare simpatia nei miei confronti e, quale che sia la sua storia, dubito davvero che vorrà confidarla a me.

Dopo una pesante giornata di lavoro, il tocco di Milo alla base del collo è potente come una magia; ha un talento innato per i massaggi, ma quando glielo faccio notare lui mi ridimensiona: “Funziona solo con te, perché siamo legati a filo doppio.”
Gli accarezzo il viso. È un buon momento fra noi, l’aria è fresca e pulita tutt’intorno. Mi sento in pace con lui e con la vita, non desidero discussioni, ma oggi lo vedo talmente ben disposto da decidere di rischiare; parto a descrivere con fervore le mie impressioni sullo studio d’arte e poi sull’intero quartiere. Milo mi ascolta con attenzione e al termine del monologo gioca coi miei capelli, lieve: “Perciò, dopotutto, io e te diciamo la stessa cosa: il Sistema funziona, perché ci permette di esprimerci in ciò che ci appartiene. Non solo: siamo in grado di sostentarci col nostro lavoro. Credi che ovunque artisti e poeti siano ceti agiati e stimati?” mi chiede.
Io annuisco: in tanti paesi moriremmo di fame, il nostro mestiere sarebbe considerato inutile; se la mette in questi termini, devo riconoscere che ha ragione da vendere. 
“Ce la caviamo alla grande” conclude.
Già, mi dico, se obbediamo agli ordini senza ribattere. Ma questo pensiero lo tengo per me. Non voglio rovinare la piacevole atmosfera, e in fondo sono d’accordo con Milo: mi mantengo grazie a un mestiere rispettato e invidiabile, che cos’ho mai da lamentarmi tanto? 

Diversamente da Milo il mio selezionato circolo di amiche – le girls, come amo definirle scherzosamente fra me e me – si dimostra tutt’altro che indifferente alle mie ultime avventure lavorative. Con un pretesto scontato mi invitano fuori a cena, in apparenza curiose di capire qualcosa di più sull’arte pittorica, in realtà attratte dall’idea di qualche avvenente genio all’opera. 
L’appuntamento è davanti a un locale del centro, un ristorantino fusion individuato dall’eccentrica Lunetta, sempre a caccia di ricette insolite e piatti raffinati. 
Le ragazze arrivano assieme, sfilando verso di me stivalate di tutto punto, sorridenti ed entusiaste nel vedermi; ci accomodiamo al tavolo per noi riservato e, prima ancora di aver aperto il menù, ha inizio l’assalto. Sabrina domanda senza mezzi termini quanti fusti io abbia già incontrato e a me scappa da ridere: sicuro, il Maestro è distinto e galante, forse in gioventù sarà stato passabile, ma adesso della sua gloria fisica non rimangono che le rovine. È in pratica l’unico uomo con cui sono davvero a contatto laggiù, e sto per rispondere di non aver notato nessuno quando, d’improvviso, avverto il rimprovero della coscienza, una leggera puntura di spillo che mi buca provocatoria il fianco: mi ritrovo a pensare a Jan, alto e ben costruito, e per quanto non possa annoverarlo nel club di cui parla la mia amica, devo ammettere che ha qualcosa di stuzzicante. Confusa, rimango zitta un po’ troppo a lungo, ma le ragazze male interpretano il mio silenzio: “Figurarsi se lei ha fatto caso agli uomini! Con Milo al tuo fianco, cos’ha di speciale il resto del pianeta?”
E qui la conversazione si spegne, in parte perché – tranne Lunetta - tutte sembrano soddisfatte nell’immaginarmi per sempre accanto a lui, in parte perché non sono autorizzata a divulgare informazioni sulla Zona Cinque – le girls sanno tutto del Modulo di Riservatezza che ho dovuto firmare all’inizio del lavoro e non premono per ottenere informazioni specifiche; soltanto per Milo avrei fatto un’eccezione, ma, vista la sua freddezza, non credo ne valga la pena.
Dopo l’arrivo delle ordinazioni, la serata prosegue saltando da un argomento all’altro: gli ultimi impegni di Sabrina, traduttrice dallo spagnolo, le difficoltà incontrate da Valeria nel descrivere, per la prima volta a quattro mani, le acconciature in voga quest’anno. Lunetta ha la mezza idea di dare un taglio radicale alla sua chioma corvina, e fa un quadro minuzioso dei capelli che vorrebbe, pretendendo di aver visto una foto su un vecchio album di modelli della mamma di sua nonna. Noi arricciamo il labbro superiore: sebbene in passato fosse normale possedere riviste simili, dubito fortemente che ne esistano ancora. Sono andate distrutte in seguito all’istituzione dei Ranghi, durante l’inasprimento del Sistema. Al giorno d’oggi, in circolazione, non si trovano altro che spiegazioni dettagliate di cosa il tuo parrucchiere può fare per te; ma sono trafiletti sterili, colmi di paroloni tecnici e niente altro. Quali foto?
Le affermazioni di Lunetta mi portano a chiedermi, non per la prima volta, come doveva essere questo paese ai tempi dei nostri avi; in casa dei miei non se n’è mai parlato e io ero troppo distratta – o troppo ammaestrata? – per indagare. 
Milo lo definirebbe un postaccio, traboccante di falliti poveri e disorientati, senza la minima indicazione sull’indirizzo da prendere; ma se io mi sforzo di guardare indietro, immagino un luogo in cui tentare il proprio cammino, un luogo in cui ascoltare se stessi - invece di percorrere banali tappe predefinite. 
Chi l’ha detto che sono gli altri a doverci costantemente raccontare dove siamo diretti?

-

*Grazie per avermi letto :-) 
Se vi va, fatemi sapere i vostri commenti, buoni e meno buoni; ditemi se vi riconoscete in Liz oppure no. Fatemi sapere anche se notate qualcosa che non torna: ogni consiglio è super apprezzato!*


9. LA PAROLA ALL'AUTORE

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Divinazione, Introspezione e Dialogo con l'Inconscio
Ma la Divinazione è veramente in grado di prevedere i nostri passi futuri? La lettura dei fondi del caffè, l’analisi attenta delle linee di una mano, l’osservazione degli uccelli in volo… può tutto questo svelarci la direzione? 
Io penso di no; o meglio, credo di sì, ma ritengo che funzioni nella maniera inversa. Non è la polvere nella tazzina e non saranno gli Arcani Maggiori a raccontarci dove stiamo andando; la nostra anima sa meglio di chiunque altro quale sia la strada maestra. Eppure talvolta ci serve un intervento esterno per reimpostare la marcia, per selezionare il traguardo verso cui orientarci; è così per tutti. Tutti abbiamo bisogno di strumenti che gettino luce sul nostro mondo interiore, che ci insegnino a riconoscerci.
Le arti divinatorie non fanno altro che guidarci dove noi chiediamo di andare; è il passeggero a tenere le redini della corsa, non il cocchiere.



Nota: queste riflessioni devono molto alla visione della signora Maria Giovanna Luini. 
Con gratitudine. 

8. CAPITOLO TERZO

(Leggi i post dal più remoto, "Bio", in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette".
Fai doppio tap sul testo: ingrandirai l'immagine e ottimizzerai la lettura.)

Il sabato è giorno di visite alla Residenza dove alloggia mio padre, così decido di andarlo a trovare. Data la sua condizione e il continuo bisogno di assistenza, ho chiesto e ottenuto che venisse spostato in Zona Quattro – cliniche e case di cura sono equamente distribuite sull’intero territorio. L’edificio in cui risiede si trova fuori dal centro urbano, in una vasta area immersa nel verde; chissà, magari durante il progetto di costruzione avranno supposto che l’atmosfera bucolica giovasse alla salute e all’umore dei pazienti.  
Quando entro nella camera che condivide con un altro ospite, papà è già sistemato sulla sua poltrona, col vassoio del pranzo pronto sotto il naso. Gli orari dei pasti qua dentro non hanno nulla a che vedere con quelli del mondo di fuori, ma una volta tanto sono contenta che sia così; il quadretto che mi si para davanti è tranquillo e in genere papà è di buon umore quando ha la pancia piena. Dal saluto che mi rivolge percepisco il solito, profondo attaccamento, ma i suoi modi sono al contempo sbrigativi; mio padre non è mai stato un campione di tenerezza, e sbagliavo a sperare che gli anni e la malattia lo avrebbero ammorbidito. Se però c’è una cosa che è mutata nell’ultimo periodo è la sua loquacità: non era mai stato un chiacchierone, ma il trasferimento deve avergli sciolto la lingua. Ancora intento a consumare il pranzo, parte a raccontarmi innumerevoli e nebulosi episodi del passato – la cui protagonista è sempre mia madre. Io mi accomodo vicino alla finestra e lo ascolto con filiale deferenza, fingendo di non aver mai udito prima tali intricate vicissitudini - e invitandolo, di quando in quando, a svuotare il piatto o a bere un sorso d’acqua. Lui dapprima borbotta, poi finisce per seguire docilmente le mie indicazioni. 
I nostri incontri non durano mai più di un paio d’ore, ma prima di andarmene desidero vagliare coi sanitari qualche questione pratica: come va il trattamento? Ha senso continuare la fisioterapia?
Per trovare risposta a tali quesiti suono il campanello rosso appeso al braccio metallico sopra il letto. Quasi immediatamente un giovane sulla trentina si materializza sulla porta, a riprova della massima efficienza che si esige nel nostro quartiere. Mentre condivido con lui le mie perplessità, mio padre attacca una delle sue solite litanie, prima a bassissima voce, come fosse un ronzio, poi con tono sempre più alto: “Sollevati e risplendi, sollevati e risplendi, sollevati e risplendi…”
Basita, mi volto verso di lui, tentando di comprenderne il soliloquio; ma l’infermiere si affretta a minimizzare, senza prestare attenzione alcuna al significato delle parole: “Non ci faccia caso signorina, è solo una conseguenza della patologia” illustra. Poi mi pilota fuori, in corridoio, dove riprendiamo il nostro discorso; ma quando mi riaffaccio alla stanza di mio padre, sempre sconcertata da quel mantra, scopro che si è appisolato sulla poltrona e sta russando della grossa.

I resti della cena sparsi sul tavolo dell’ampia terrazza, le luci soffuse nella speranza di scorgere meglio gli astri, io e Milo ce ne stiamo col naso appeso all’insù, intenti a individuare le costellazioni.
Semisdraiati sul dondolo, chiacchieriamo amabilmente della giornata appena sfumata: lui ha speso l’intero pomeriggio in sala prove e appare molto compiaciuto della performance, io invece racconto di mio padre, di come la sua demenza stia ovviamente prendendo il sopravvento, dell’avvertimento dei sanitari a non dar peso alle sue crescenti farneticazioni. Tralascio volutamente i dettagli, anche perché, col trascorrere delle ore, mi sono quasi convinta di aver sognato quella frase, mormorata a ripetizione in modalità monocorde: sollevati e risplendi, sollevati e risplendi, sollevati e risplendi…
Un brivido mi corre lungo la schiena e Milo, pensandomi infreddolita, mi passa un braccio amorevole sopra le spalle, accarezzandomi e stringendomi forte a sé.

La settimana seguente si apre rigida e ventosa, perciò recupero una sciarpa a trama fitta dal cassetto prima di uscire dall’appartamento. Mentre finisco di prepararmi, il bip del cellulare annuncia l’arrivo di un nuovo messaggio: è Daria, mi conferma che l’appuntamento con il Maestro è fissato per le nove in un bar del centro dove potremo farci un’idea di come impostare il lavoro.
Salgo in macchina in preda a uno strano nervosismo: saprò svolgere al meglio il compito affidatomi? Sono una professionista, esigo il massimo da me stessa. Ma da qualche parte, sotto la preoccupazione per le mie capacità, si agita un altro genere di sovreccitazione: che sia proprio il Maestro l’artista sconosciuto di cui parlava la veggente? Le foto che ho osservato tanto minuziosamente negli ultimi due giorni farebbero pensare di no; su quel vecchio libro pareva tutto fuorché alto, ed esibiva le rughe che ricordo in mio nonno. Ma da una pagina non si può certo giudicare, perciò non sto nella pelle al pensiero di conoscerlo.
Quando arrivo alla caffetteria, però, scopro di non essermi sbagliata. Quest’uomo è basso, appesantito dalle molte cene offerte in suo onore; anziano e ben vestito, sembra più un docente di ateneo che un maestro di pittura astratta. L’aspetto è serio, ma l’espressione è bonaria. Ordiniamo il caffè, iniziamo a parlare, la conversazione procede senza inciampi; in un lampo è già mezzogiorno passato, e noi ci alziamo per congedarci. 
“L’aspetto stasera nella mia galleria” dice il Maestro, porgendomi un tesserino che vale l’entrata nella Zona del suo Rango. “Mi chiami se le dovessero fare difficoltà. Ma non ci saranno intoppi.” 
Si allontana, usando l’ombrello a mo’ di bastone, io lo seguo fino a che posso con lo sguardo; poi lo perdo in fondo al viale. Mi appoggio allo schienale della poltrona e chiamo il cameriere per un altro caffè, anche se è quasi ora di pranzo.
Decisamente il mio pittore non è lui, ma non posso dirmi delusa dall’incontro. Questo tizio sa rendere palpabile il piacere che prova nello stendere il colore, nel trasformare il suo io più intimo in una traccia visibile. Il suo racconto è una rivelazione dalla forza travolgente, ne sento il richiamo, che conferma nel mio cuore il bisogno di creare in modo diverso dalla frase scritta. 
Milo ha ragione: devo stare in guardia. In questo mondo sbagliato non avrei modo di difendermi da chi sostiene che una parte della mia anima debba continuare a restarsene spenta.



33. LA PAROLA ALL'AUTORE

( Leggi i post dal più remoto, "Bio, in poi. Segui l'indice che vedi nella sezione "Etichette". Fai doppio tap sul testo:...