mercoledì 10 settembre 2025

40. CAPITOLO DICIOTTESIMO

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Nel pomeriggio veniamo lasciati liberi di dedicarci ai nostri interessi, e io potrei tranquillamente salire in camera e buttarmi sul letto per continuare il romanzo della settimana appoggiata ai miei caldi cuscini; invece, scelgo di dirigermi all’Edificio e approfittare della sua sala di lettura. 
Scovata una postazione libera e riparata, mi lascio cadere con dolcezza sulla poltroncina in finta pelle marrone. Una gradevole temperatura regna sovrana e le vetrate lustre sono alte abbastanza da permettere al cielo di giungere fino ai tavoli, fino a lambirmi le braccia e il volto. Distendo le gambe per quanto possibile e mi calo nel giallo che ho preso in prestito - una vicenda ricca di intrecci in cui una detective green indaga su una serie di crimini legati alla foresta tropicale. La trama mi è suonata nuovissima dal primo istante, dell’autrice non avevo mai sentito pronunciare il nome; ma ho esperienza sufficiente da sapere che sull’Isola si applicano regole particolari anche per la raccolta di testi e documenti.
Circa un anno fa, a pochi giorni dal mio arrivo, ho fatto qualche ricerca occulta, nella speranza di trovare almeno un paio delle mie opere fra questi scaffali; con rammarico, ho constatato che non ce n’era traccia. Una vocina fastidiosa sussurrava tenace al mio orecchio che avrei dovuto aspettarmelo - e ben presto mi sono resa conto che questa epurazione non riguarda me soltanto; ogni titolo presente qui mi è del tutto sconosciuto. Il materiale a disposizione degli ospiti è abbondante, ma introvabile nel mondo di fuori, ed è sempre improntato ad argomenti che non turbino la serenità della famiglia. Le comuni letture non varcano i nostri confini: “Un’anima quieta è un’anima sana”, ecco un altro dei motti tanto grati ai Riabilitatori.

Verso le sei, quando ormai ho il romanzo in grembo da due ore, Marzio si materializza davanti a me, munito di tisana calda e biscotti. Senza attendere alcun invito, si accomoda alla mia sinistra: “Vuoi favorire?” s’informa, con il suo tono robotico ma gentile. Io ringrazio e mi servo, assaporando con gusto uno dei dolcetti alla mandorla. Parliamo del più e del meno per mezz'ora, mentre il giorno va spegnendosi oltre le siepi del giardino. Poi, finalmente, Marzio svela il reale motivo della sua visita: “Ho notato il tuo interessamento per il tema trattato stamani” spiega, “e sono curioso di sapere se sei disposta a tenere una presentazione di fronte agli altri. Ti darò tutto il tempo di cui hai bisogno e ti procurerò la bibliografia necessaria a prepararti”, assicura.
Sorrido. Il suo invito mi lusinga da matti, e sono certa che potrei uscirmene con un lavoro eccellente: “Accetto volentieri. Ma non è inusuale affidare a noi un compito simile?”
Marzio accavalla le gambe e avvicina la tazza alle labbra prima di rispondere: “Non è troppo frequente, ma non è neppure inaudito. Dipende dai soggetti con cui abbiamo a che fare” conclude, e una puntura di spillo mi buca il fianco al sentirmi definire soggetto
Però desidero davvero aderire alla proposta, e non intendo portargli rancore; perciò tendo la mano per suggellare il patto. Lui l’afferra con la sua presa salda. 
Dopo di che si congeda, augurandomi con calore un felice proseguimento. 
Sopra la sala sta scivolando l’oscurità, le lampade automatiche delle postazioni sono accese. Le finestre mi gettano addosso una strana luce viola, e guardando fuori credo di distinguere una forma bassa, in movimento fra i cespugli. Un animale, magari? Mi stacco dal tavolo e mi accosto ai vetri con curiosità; ma l’attimo è passato, e quell’ombra misteriosa è già svanita nell’aria silente del tramonto.

Una volta al mese, prima di andare a dormire, Marzio e Vittoria ci riuniscono nell’ampio soggiorno per farci ascoltare musica classica. In genere prediligono Mozart, ma anche altri compositori sono ben accetti: ciò che conta è che il brano sia lento e armonioso. Già preparati per la notte, infagottati nei nostri pigiami tutti uguali, veniamo fatti accomodare su morbidi e spaziosi guanciali, con le note in sottofondo a favorire un totale relax. 
A detta dei Riabilitatori, i benefici di questa terapia sono comprovati da un pezzo: le note riducono il livello di cortisolo e aiutano la produzione di onde alfa, facilitando un senso di distensione. Priva dell’accompagnamento vocale, la melodia riduce ogni pena, spalancando la strada a un sonno ristoratore. 
Al pari delle altre discipline presenti nel nostro piano di formazione, anche le cosiddette serate Amadeus puntano a restaurare un equilibrio interno; perseguire lo stato di quiete è il leitmotiv dominante qui sull’Isola - ormai ci abbiamo fatto il callo.
Nonostante io apprezzi questi ritrovi musicali, non posso impedire ai pensieri di convergere su Milo e sulla vita che conducevamo in Città: vorrei che potessimo di nuovo partecipare ai concerti da camera del teatro dell’opera, gustarne l’atmosfera raffinata. E vorrei far bella mostra di me nel mio abito lungo, scortata dal migliore dei cavalieri, scintillante sotto i lampadari di cristallo. 
Ma getto intorno uno sguardo desolato e chino il capo con rassegnazione: dovrò accontentarmi di un cd e della compagnia di ospiti semiaddormentati e raggomitolati in posizione fetale.


sabato 30 agosto 2025

39. ESPANSIONE

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Sotto la voce Espansioni trovate quella parte di narrazione che segue le avventure dei personaggi, ma non compare nel testo originale; perché il nostro mondo è un mondo che pulsa...

Sono in quattro a salire sul palco rialzato: Vittoria, Marzio e altri due giovani, prestanti gazzelle in forza alle Squadre di Riabilitazione. Una volta là sopra, in completo dominio dell’assemblea, si esibiscono in un piccolo inchino; in perfetta sincronia, ogni membro dell’uditorio inclina il capo con garbo, in segno di cortese risposta.
Eppure sappiamo fin troppo bene cosa stia a significare questa sfacciata pantomima: cara famiglia, ci dicono senza proferire verbo, siamo qui per conto del Sistema. Agevoliamo il vostro percorso, ma il nostro compito è servire lui. La Commissione vi ha concesso una seconda chance, non sprecatela: vi indicheremo come metterla a frutto, passo dopo passo.
Se non fossi così condizionata a non reagire, so che sbufferei come un mantice; ma la lezione è penetrata bene al di là dell’epidermide e non lascia spazio a iniziative spontanee. 
Alla mia destra, Silvia si agita un poco sulla sedia; ma a parte questo, non vedo emozioni filtrare attraverso quel corpo. Le spalle sono distese, e il viso è piatto e grigio come le pietre che lanciavamo sul lago da bambini, restando a osservarne i salti nel bagliore del sole riflesso a pelo d’acqua. È granitica, Silvia, e a suo modo lo è anche Letizia; perfino lei, sempre sull’orlo di una crisi di panico, riesce a conservare un’espressione neutra al cospetto dei Riabilitatori. 
Perché un’ostentata indifferenza è l’arma migliore contro la provocazione, contro il rischio di lasciarsi scoprire il fianco. Non siamo che prolunghe dei nostri guardiani, e come tali esprimiamo quel che si aspettano da noi; ma per farlo ci svuotiamo dei nostri contenuti, ci allontaniamo dal nucleo di noi stessi. 
Mi balza alla coscienza l’incubo che ho avuto questa notte - una scena che accompagna spesso le mie notti solitarie e che getta un’ombra di oppressione sul mio cuscino al risveglio. 
Nel sogno sono nella mia stanza, nell’appartamento che occupavo al Quartiere Quattro, e cerco con frenesia la chiave del primo cassetto del comò: una chiave pesante, dorata e grossa. All’interno ho riposto i pendenti avuti in dono da Milo una vita fa, e tremo all’idea di non poter recuperare un oggetto così prezioso. Via via che i secondi scorrono, l’agitazione precipita nell’angoscia - specie quando, osservando meglio il mobile chiaro, realizzo che è rivestito interamente in pelle umana. La mia pelle, coperta di nei e pallida come la luna. Scorgo perfino, con l’ennesimo brivido freddo, la scritta farfalla, che spicca nera su uno spigolo in basso. Poi, di colpo, il cassettone si sgretola sotto i miei occhi, fino a disfarsi in polvere; e a quel punto mi sveglio di soprassalto, con un verso da animale in trappola strozzato in gola.
Cosa racconta questo orribile scenario? Cos’ho perso di tanto importante? Mi affanno e piango sugli affetti del passato o sugli insostituibili pezzi di me stessa? 












 



mercoledì 20 agosto 2025

38. CAPITOLO DICIASSETTESIMO

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Ogni mattina, alle sei e trenta, la campana risuona in tutte le stanze del primo e del secondo piano, intimandoci di scendere a colazione prima di inaugurare una nuova giornata di pratiche correzionali. 
Così mi alzo dal letto e infilo la vestaglia grigio topo ricevuta al mio arrivo: il corredo degli ospiti ha tinte smunte e tristi, le fantasie chiassose sono bandite quassù - il che, se provieni dal Rango Quattro, ti fa sentire a tuo agio: è quasi un conforto, è quasi essere a casa.
Vestita di tutto punto, mi presento in soggiorno al banco delle vivande: il menù è facile da prevedere, cereali e latte è tutto quel che ci assegnano. Quanto al tè e al caffè, ne ho dimenticato perfino l’aroma: le bevande stimolanti sono vietate, così come lo sono gli alcolici. Ciò che può rendere eccitabili è interdetto a chi proviene dalla Struttura - ma consentito, con moderazione, a chi siede ai posti di comando.
Sei giorni su sette seguiamo questa immutabile routine, come obbedienti formichine all’interno della colonia; unica eccezione sul calendario è la domenica, momento dedicato alle attività rituali. 
Per tutta la vita che ho passato in Zona Quattro - e per tutti i mesi buttati in Struttura - la sottomissione ai vertici del potere era una condizione scontata; per ottenerla non erano previsti giuramenti solenni né mezzi coercitivi. Ma qui sull’Isola, con una comunità tanto nutrita in fase di riscatto, la promessa di lealtà non è più lasciata al caso. 
Ed è proprio per rafforzare il senso di appartenenza che entra in scena l’Auditorium - quella specie di sala conferenze, pomposamente denominata Agorà, che occupa in toto l’ultimo piano dell’Edificio. L'ambiente è progettato per ricevere la nostra famigliola al gran completo, specialmente nei periodi freddi, quando le temperature sono tanto rigide da non permettere adunate esterne. Solo con l’avanzare della primavera le sessioni collettive si spostano all’aperto, collocandosi di preferenza sul pratone dietro le Domus.
L’Agorà ospita uno schermo gigante per la proiezione di slide o filmati e un podio (o dovrei dire un pulpito?) dal quale ogni domenica i Riabilitatori declamano, con le loro voci altisonanti e robotiche, sermoni e regolamenti ufficiali. C’è anche una postazione ulteriore - provvista di microfono, ma collocata in basso per ragioni gerarchiche - dalla quale prendiamo la parola noi, gli ultimi, per una buona dose di autocritica. Però non descriviamo mai il reato che ci ha trasformati in ignobili reclusi; dobbiamo semplicemente riconoscere a pieni polmoni la gravità dei nostri errori. 
E, soprattutto, fare ammenda per esserci macchiati della colpa più grande: aver tentato di agire su iniziativa personale.
Mentre annaffio la mia ciotola di crusca col latte fresco, Silvia si accomoda sulla sedia di fronte alla mia. Sbadiglia, gli occhi ancora cerchiati dal sonno, e con una mimica un po’ goffa mi supplica di riempire una tazza anche per lei. Io eseguo, torno al mio posto e le porgo un coccio che reca la scritta Faccio parte della famiglia - parole stampigliate ovunque su utensili e accessori, tese a sradicare in via definitiva quella  fragile individualità che potremmo ancora, pericolosamente, conservare nonostante tutto. Perché quando saremo integrati alla perfezione, non riusciremo più a guardare fuori; sprofondati nell'abisso, percepiremo solo il nero che ci avvolge.
Silvia mi ringrazia con calore e mi rivolge un sorriso zuccheroso come marzapane. Anche se in generale è affabile e premurosa, sa diventare adulatrice fino all’eccesso, specie con Marzio e la collega Vittoria; è subito pronta a compiacerli, prodiga di sciocchi interventi non richiesti. È ambigua, e per il momento preferisco sospendere ogni giudizio sul suo conto - sebbene viva con lei da oltre due anni. 

Vestiti di tutto punto, un’ora dopo colazione, ci raggruppiamo all'ingresso, pronti per recarci in sartoria - un prefabbricato situato a metà strada fra l’Edificio e l’area delle Domus. Alla sola idea, alcuni dei miei compagni fanno smorfie di raccapriccio; non mi è chiaro dove vivessero prima dell’ingresso in Struttura - lo scambio di informazioni simili non è permesso - ma certo non si trovavano in Classe Otto. Io mi sforzo di mantenere un’espressione neutra, quando in realtà nascondo uno stato d’animo simile al loro. Sebbene i Riabilitatori non facciano che rassicurarci con slogan del tipo “l’apprendimento è sacro in ogni fase della vita”, cimentarsi con la manualità è una vera e propria sfida. In precedenza non ho mai dovuto tenere un ago in mano, né appendere un chiodo alla parete - o meglio, non ho mai potuto farlo e il risultato è che adesso tutto sembra un ostacolo, una cima insormontabile. Soltanto ai fornelli ho imparato a cavarmela discretamente, pur non potendomi ritenere uno chef stellato – a casa era Milo il vero esperto, ma per evitare che i recettori si attivino e il dolore esploda, caccio svelta il suo ricordo in un angolino perduto del mio cuore. 
Arrivate alla sartoria, io e Silvia prendiamo posto in seconda fila dietro a due ragazzoni dai bicipiti muscolosi, che catturano totalmente l’attenzione della mia compagna: “Non serve essere scienziati per capirlo, questi due provengono dal quartiere degli atleti; chissà quanta energia da sfogare hanno in corpo…” bisbiglia maliziosa, ma subito dopo Marzio compare in cattedra e il chiacchiericcio nel laboratorio cessa di botto. 
I frivoli apprezzamenti di Silvia non mi toccano, però mi spingono a domandarmi come mai sia tollerata tanta promiscuità. È parte del piano di recupero cui siamo sottoposti? È per testare il nostro rinnovato grado di disciplina? Naturalmente ogni contatto fra i due sessi è destinato a rimanere amichevole, ma se anche i flirt fossero ammessi non credo che a Silvia interesserebbero realmente gli approcci dei due ex culturisti al primo banco. Da tempo nutro la convinzione che nessuno le piaccia più di Marzio, a dispetto della spersonalizzazione subita; Marzio, così enigmatico e stuzzicante nel suo sventurato ruolo di antagonista. 







giovedì 14 agosto 2025

37. CAPITOLO SEDICESIMO

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Sull’Isola è tornato l’autunno e la temperatura è precipitata di diversi gradi. Il cielo ha una tonalità indefinita, gli alberi quasi spogli levano i rami secchi verso l’alto, come braccia a invocare aiuto. La campagna ha preso d’un tratto un aspetto un po’ lugubre, ma al contempo pittoresco.
Nonostante l’ora tarda, io e Silvia ce ne stiamo sedute sugli spalti del campo di atletica, coi colletti delle giacche identiche alzati a ripararci dal vento. Lei tiene fra le mani un thermos colmo di tisana bollente, io sorseggio una cioccolata in tazza – anche se non so che darei per un latte macchiato. Giù in pista, Marzio si allena senza posa: è concentrato, metodico, mi rammenta Milo in sala prove, tanto assorto in ciò che faceva da non considerare nient’altro. Ma il suo ricordo è come fiele, e non appena lo becco che fa capolino mi affretto a schiacciarlo sotto il tacco; senza Milo mi manca un braccio.
D’un tratto i lampioni si accendono tutt'intorno, creando ampie pozze di luce; e dopo l’ennesimo allungo Marzio decide che è ora di rientrare alla base. Corre verso di noi, Silvia gli lancia la felpa che custodisce con premura da due ore; gli sorride, poi si lascia scappare un microscopico sospiro. In silenzio, ci avviamo assieme verso la Domus - anche a piedi non dista molto dall’Edificio centrale e la strada da percorrere è bene illuminata… per ragioni di sicurezza, immagino. 
Sperando di evitare il freddo pungente, scivoliamo via svelti come spettri, assorti nei nostri pensieri. Percorriamo tacitamente il sentiero di terra battuta che si snoda verso sud, ma quando arriviamo in prossimità della meta, senza alcun preavviso, Marzio ci sfida a batterlo sul tempo, lanciandosi in una corsa da campione con cui il nostro scatto ritardato fatica a competere. 

I Riabilitatori, categoria in cui si annoverano anche Marzio e la sua partner Vittoria, vengono addestrati a operare in coppia. Sono giovani atletici dall’aspetto altero, perennemente vestiti di bianco, impossibili da confondere con la restante popolazione  dell’Isola.
Non appena sbarcata al molo, ho notato le loro caratteristiche iridi slavate: sono allarmanti, di una tonalità sottile come vetro soffiato, duri pezzi di ghiaccio affissi su volti bellissimi. Abbinate a pupille poste in verticale - forse a ricordare la potenza dei felini - inquietano e attraggono l’interlocutore al tempo stesso. I loro occhi sembrano un atroce scherzo di natura - ma si vocifera che per ottenere questo curioso effetto ricorrano a lenti concepite ad hoc.
Pure la voce non ha alcunché di naturale: creata ad arte con un sofisticato dispositivo tecnologico, si irradia in onde metalliche che ricordano le vibrazioni emesse da un androide - così da bandire ogni residua sfumatura di umanità dai loro corpi perfetti. 
Eppure, strano a dirsi, non provo orrore davanti a loro; anzi, li compatisco. L’alienazione cui si sottopongono è anch’essa una punizione: chissà se, mentre contemplano la propria maschera allo specchio, capita che non si riconoscano affatto. Chissà che, nel tempo, non abbiano smarrito una frazioncina di se stessi, un tassello impercettibile che ora stentano a ripescare nella vastità del nulla. 
Occupati a rieducare gli ospiti, presiedono le attività, affiancati talvolta da medici e Ausiliari - figure incaricate del vettovagliamento, della manutenzione e della pulizia dei locali.
Se non sapessi con matematica certezza che ogni liaison amorosa è tassativamente proibita fra i membri del personale – per fugare eventuali dubbi basta consultare il Regolamento, onnipresente su tutti i piani dell’Edificio e della Domus - mi convincerei che tra Marzio e Vittoria sia nato del tenero: collaborano in perfetta sintonia, sono somiglianti come anime gemelle, non li si sente mai bisticciare. Dopo il pasto serale li ho sorpresi spesso a parlottare in tono sommesso, e in più di un’occasione la ragazza teneva le mani di lui racchiuse fra le sue. A me la loro intesa pare perfetta: sono parti differenti dello stesso puzzle, due piccole tessere che si incastrano al millimetro. 

Conclusa - dopo secoli - la detenzione in Struttura, chiunque entra nelle nostre schiere viene collocato  presso l’Edificio. Si tratta di un ambiente smisurato, concepito per accogliere una comunità di oltre duecento persone: è provvisto di camerate, cucine e sala mensa, servizi e infermeria. C’è persino un auditorium, con le sue gradinate, il palco rialzato e sedie comode. Anche la pista all’aperto su cui si allenava Marzio appartiene a questo complesso e può essere sfruttata dal personale e dagli ospiti secondo gradimento - la divisione in Classi è un lontano ricordo quaggiù, e il programma per il reintegro prevede attività motorie in abbondanza. Qualcuno va dicendo che a breve costruiranno una piscina in muratura, ma non sono tanto sprovveduta da volerci credere: i pomeriggi sono lunghi da passare e la fuga di notizie inattendibili, messe in giro a danno dei creduloni, non è un evento così inusuale.
Alla scadenza del periodo iniziale, che varia dai dodici ai diciotto mesi, gli ospiti vengono trasferiti coi loro Riabilitatori nell’area delle Domus - costruzioni su scala decisamente ridotta, progettate per permetterci uno stile di vita più intimo e familiare.
Gli ambienti, benché raccolti,  garantiscono finalmente un po’ di privacy: disponiamo di stanze singole e di una certa autonomia, e da principio questa grande fiducia mi sbalordiva. Quando salivo in camera mi precipitavo a spalancare la finestra, assaporando l’assenza delle sbarre in ferro battuto; respiravo a fondo, provando un potente senso di libertà. Ma poi ho riflettuto meglio sulle politiche del luogo e il mio stupore è diminuito sensibilmente: questo progetto esiste per rieducarci, è ovvio che contempli esperienze di vita indipendente. In più qualsiasi tentativo di fuga sarebbe ridicolo: con che obiettivo, raggiungere il continente a nuoto?
Sia come sia, gli Ausiliari prendono le loro precauzioni prima di coricarsi: se pur maneggiamo coltelli e forchette nelle ore diurne – sotto attenta supervisione – scendere dopo il buio nelle sale comuni non è consentito. Se ci avventurassimo da basso dopo le dieci, sarebbe solo per scoprire che le armi improprie sono state accuratamente chiuse a chiave. 
E comunque lasciare le nostre stanze è pressoché inutile. Ogni camera è corredata da una toilette privata, lo sportello del comodino accanto al letto è quotidianamente rifornito di tisana e biscotti: qualunque visita notturna alla dispensa sarebbe superflua.

Nessuno sa cosa sarà di noi a riabilitazione avvenuta: eccettuata la vecchia Faith, che appartiene alla comunità dell’Isola da tempo immemore, finiremo tutti per andarcene. Ma la nostra destinazione ultima rimane sconosciuta. Ogni sei mesi i più anziani fra noi vengono portati via a bordo di grosse macchine nere, per essere tradotti non si sa dove; al loro posto subentrano i nuovi arrivi, prelevati direttamente dalla Struttura.

Spesso mi sono domandata se il territorio su cui sorge il nostro insediamento appaia esattamente come lo descrivono, un rigoglioso pezzo di terra emersa nel bel mezzo dell’Atlantico. Al nostro arrivo eravamo drogati, privi di sensi, nessuno di noi ha avuto percezione del tragitto o del tempo che ci è voluto per compierlo. Siamo a digiuno di qualunque coordinata geografica e dal punto in cui alloggiamo la presunta massa d’acqua rimane invisibile.
Perciò ripeto: siamo sicuri che l’Isola sia veramente un’isola? La sua estensione non è valutabile, perché non disponiamo di mezzi per spostarci: chi ci ha portato fin qui è ripartito subito dopo, e le camionette che si occupano dei viveri fanno dietro front appena scaricato il cibo. 
Non so da dove provengano le auto usate per i rifornimenti, ma è chiaro che esiste un altro agglomerato a pochi chilometri dal nostro centro; magari non è neppure distante, ma mi manca il fegato di cercarlo, di avventurarmi da sola nella boscaglia. Anche l’idea di perlustrare i paraggi a caccia di sbocchi sulla costa è stata accantonata da un pezzo. Specialmente dopo il trasloco alla Domus ho troppo da perdere: se mi beccassero, verrei rispedita dritta dritta all’Edificio - e certo non intendo correre un simile rischio.
Però le perplessità rimangono: c’è davvero un vasto oceano azzurro-blu a circondarci? Oppure ci riempiono la testa di fandonie, per scoraggiare improbabili rivolte e tentativi di evasione?



mercoledì 13 agosto 2025

36. LA PAROLA ALL'AUTORE

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Cari amici,

innanzitutto un grande grazie a chi ha seguito le avventure di Liz fino a questo momento: la vostra presenza è un regalo prezioso ❤
Con l’ingresso in Struttura si chiude una parte importante della vicenda, parte in cui abbiamo assistito al risveglio interiore della nostra protagonista. L’intimo desiderio di spezzare le proprie catene, unito alla capacità di riconoscere con chiarezza le dinamiche del Sistema, l’ha portata a pagare un prezzo altissimo… ma a rimanere comunque fedele a se stessa.
Adesso, però, comincia il secondo tempo della nostra storia, in una realtà diversa ma altrettanto soffocante: un rigido campo di riabilitazione, iper regolamentato, situato su un’isola sperduta nel bel mezzo dell'oceano. A questo luogo non si sfugge, né col fisico, né con la mente; gli obiettivi principali delle Squadre sono controllo e correzione dei soggetti, e le Autorità faranno di tutto pur di portare a casa il risultato.
Riuscirà Liz a fare opposizione?
Oppure il Sistema troverà la chiave per piegarla al suo volere?
Non vi resta che scoprirlo.



mercoledì 6 agosto 2025

35. LA PAROLA ALL'AUTORE

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Il metro del profitto
La realtà che ci circonda misura il nostro valore secondo il metro del profitto. Ci viene insegnato, in maniera più o meno diretta, che per sentirci realizzati dobbiamo guadagnare molto, lavorare in un ufficio prestigioso, far colpo coi nostri titoli durante una cena tra amici. Tutto, dall’aspettativa familiare al bombardamento mediatico, ci spinge verso un’unica meta: quella della competizione col prossimo e dell’accumulo (a non finire!) di beni di consumo.
Possibile che sia questo il senso della vita sul nostro pianeta? La società, ossessionata da produttività ed efficienza, dimentica spesso una verità fondamentale: non siamo qui per produrresiamo qui per creare
Siamo qui per evolvere. 

C’è una parte profonda dentro di noi, che raramente viene ascoltata; eppure è proprio lei a conoscere la nostra missione sulla Terra.
Inseguire stipendio e status, evitando di interrogarci sul cammino da percorrere, rischia di allontanarci dalla nostra autentica vocazione. Ogni anima ha un compito, una via maestra che le appartiene nel profondo; ma il sistema, così com’è impostato, ci insegna da subito a zittire quella voce che ci portiamo dentro, a dubitare delle sue parole… ci abitua a prendere decisioni convenienti, anziché a pórci in linea con chi siamo davvero.
Ma il prezzo che si paga ignorando - tradendo! - se stessi è assai alto: quante persone, seppur circondate dal lusso, si sentono irrimediabilmente vuote o incomplete?
Il successo non si misura contando gli euro nel portafoglio; si costruisce con la fedeltà alla verità interiore. Per trovare la direzione ci vuole coraggio, occorre disobbedire al copione che il mondo ha scritto per noi. 
Ma è solo così che si vive davvero. 
Il resto… è mera sopravvivenza.


Vorrei ribadire un punto importante: non desidero tenere lezioni, non è il mio ruolo, non ho le competenze necessarie. E non potrei mai avere tutte le risposte… ammesso che le abbia un insegnante.
Quello che desidero fare, invece, è condividere: condividere ciò che sento ogni giorno, ciò che risuona dentro il mio petto. Non porto verità assolute, ma una semplice testimonianza di me stessa… che magari può accendere qualcosa anche in voi, così come succede a me quando sono gli altri a raccontarsi in mia presenza.





domenica 3 agosto 2025

34. CAPITOLO QUINDICESIMO

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Milo compare equipaggiato con sorriso accattivante e fiorellino colto di fresco. È evidente che nel leggere le mie parole ha equivocato, sperando in una sorpresa; ma non appena gli pianto addosso gli occhiacci più cupi di cui sono capace, il sorriso evapora e lui si affretta confuso verso l’angolo in cui sono seduta: “Già a quest’ora?” domanda indicando col mento la pinta che ho davanti, ed è chiaro che il buio in cui brancola sta aumentando. Non bevo mai prima delle cinque.
"Non sono ubriaca” biascico impermalosita per tutta risposta.
“Lo sarai presto. Che succede?”
Eccoci al dunque. Non ho preparato alcun discorso, non so neppure io come voglio affrontare la faccenda, ma la birra che naviga nel mio stomaco digiuno mi rende bellicosa.
"So tutto di te e Lunetta” sbotto senza preamboli.
Milo si appoggia allo schienale e si massaggia le tempie, genuinamente perplesso. “Ma di che cavolo parli?”
"Delle sue visitine in sala prove, del fatto che da mesi ti sta tampinando, delle vostre manie di controllo sulla mia vita. Non so quali trame mi abbiate nascosto, ma ti darò un’informazione: non ho tre anni.”
“Ti ringrazio per le delucidazioni sull’ufficio anagrafe, ma tu farnetichi. È venuta a trovarmi a lavoro e non vedo che male possa fare. È soltanto in ansia per te. Non ha tentato nessun approccio indiscreto, se a questo ti riferisci, ci sono almeno dieci persone che possono confermarlo.”
"E allora come mai tanta segretezza? Perché non ne sapevo niente?”
"Perché è stata lei a chiedermi di tacere. Ha detto che, considerata la situazione fra voi, non voleva che tu fraintendessi le sue intenzioni. Lì per lì la ritenevo una preoccupazione esagerata, invece pare che avesse ragione. E, francamente, renditi conto che non siamo noi a traboccare di segreti.”
Rimango a bocca aperta. Questa è proprio bellina, cos’è, rigira la frittata? 
Tento la voce più dura che mi riesca, una specie di sordo ringhio animalesco: “Come, prego?”
"Non fare la finta tonta. Messaggi da non si sa chi nel cuore della notte, menzogne riguardo alla cura del dottore, continue e pericolose valutazioni a proposito del Sistema. Ti è venuto in mente che rimanerti accanto può condurci tutti alla più vicina Struttura? Certo che no, la grande Liz non perde tempo a occuparsi di chi le vuole bene, è troppo presa dai suoi drammi personali! Ma incredibilmente, sebbene tu ti comporti da egoista, nessuno si è tirato indietro: per cosa, dico io, per prenderci pure degli stronzi? Che sciocchi.”
Nonostante il lavorio alcolico del mio cervello, sospetto che nelle opinioni di Milo ci sia almeno una punta di ragione, ma la cocciutaggine di cui sono preda non mi permette di riconoscerlo ad alta voce. Perciò riparto all’attacco, tentando una strada diversa: “Beh, avete preso la palla al balzo, mi pare! Lo so da un secolo che Lunetta voleva metterti le grinfie addosso, suppongo ce l’abbia fatta!”
Vorrei rimangiarmi queste carognate all’istante, non c’è una briciola di vero in ciò che ho detto e lo so, per lui la lealtà è il valore più grande. Ma ormai il danno è fatto e Milo risponde alle false accuse con arguzia superiore alla mia: “Se anche fosse, non vedo da chi tu possa correre a lamentarti: in Classe Quattro, lo sai, la fedeltà non è obbligatoria.” Ciò detto si alza dallo sgabello e si allontana, senza neppure disturbarsi a salutare. Un secondo dopo infila la porta e sparisce sotto l’acqua che nel frattempo ha cominciato a scrosciare fitta. 
Chiamo il cameriere e chiedo un’altra doppio malto. L’occhio mi scivola sulla margherita recisa che Milo mi aveva portato, tristemente abbandonata sul tavolo. Sembra perfino star peggio di me. Mentre attacco l'ennesima pinta, mi balza in mente la notte in cui ci siamo conosciuti, una vita fa, durante uno dei concerti organizzati al Temet Nosce. Nonostante l’energia della band la serata non accennava a decollare, tanto che meditavo di svignarmela in anticipo; e lo avrei fatto se non fosse stato per le persistenti occhiate del tipo appoggiato al banco. Coi suoi riccioli ribelli e quel fisico niente male, Milo non ci aveva messo molto a catalizzare la mia attenzione, e in meno di mezz'ora avevo elaborato l’unico concetto che contasse qualcosa: il mio interlocutore possedeva gli ingredienti giusti per farmi innamorare sul serio. 

A pomeriggio inoltrato, uscendo dal locale col mio bagaglio più che alcolico, mi imbatto per l’ultima volta nella familiare figuretta sperduta, asfissiata dalla felpa sproporzionata e cupa. È sempre lei, la biondina dalle lunghe trecce, e io sento, al solo scorgerla, un’intima fitta di rimpianto. 
In un lampo ne indovino l'identità e mi basta il tempo di un battito di ciglia per pronunciarne il nome… per pronunciare il mio nome. Perché quella sono io, io spiccicata, muscoli e ossa. Sono io com’ero anni fa; è la piccina che sono stata, quella che coltivava con grinta sogni e aspettative, quella che esisteva prima che tradissi me stessa e mi lasciassi assimilare dal Sistema - e che adesso stenta a respirare, gravata com’è da quella matassa di grigia oppressione che è costretta a trascinarsi in giro.

Ho sbagliato tutto, adesso lo so.
Ho sbagliato nei miei riguardi quando ho rinunciato a cercarmi, quando ho smesso di lottare per raggiungere il mio reale posto nel mondo. Mi sono accontentata di navigare in acque sicure, senza mai osare, senza mai puntare a quello spazio chiamato oltre, accidenti a me.
E ho sbagliato nei confronti di Milo. Avrei dovuto puntare ad appianare i contrasti, a risolvere; potevo abbracciarlo e chiedergli di aiutarmi a colmare la distanza che ho creato tra noi - un solco profondo scavato con le mie mani in tutti questi mesi, che ormai ha raggiunto le dimensioni di una voragine.
È tardi per le recriminazioni. Fra tre giorni ho un nuovo appuntamento col medico del lavoro e, comunque vada, stavolta sarò da sola a reggere il colpo.


*


Là fuori c’è il mare. Anche quando non mi affaccio ai vetri ne sono costantemente consapevole. Alle prime luci dell’alba i gabbiani fanno sentire la loro voce e io mi scopro a immaginare l’ampio canale d’acqua che ci separa dalla terraferma e dalla Città, suddivisa in tutte le sue Zone. 
Le finestre della Struttura sono alte veramente, proprio come sentivo raccontare da bambina, proprio come ci assicuravano a scuola; durante il giorno inondano di luce l’ambiente asettico, lasciando che entri al suo interno la gioia pulsante del mondo reale, un mondo che qui ci è precluso per sempre. Magari è un trucco per farci crepare d’invidia.
L’aspetto peggiore del doversene restare sprangati fra queste mura è il troppo tempo che si ha per rimuginare. Fa parte della Correzione, suppongo; o è una crudele trovata per punirci? I pensieri, inizialmente delle dimensioni di uno spillo, si gonfiano fino a diventare palloncini sul punto di esplodere; ma il botto non arriva mai, altrimenti, così come sono apparsi, svanirebbero. Al contrario, si espandono fino a riempire ogni fessura, ogni millimetro di cranio disponibile; e fino a farsi insostenibili. Una delle idee fisse con cui imparare a convivere è la vetta raggiunta dall’indottrinamento che subiamo, anche quando ci crediamo consapevoli, anche quando ci pensiamo liberi. Il Sistema ci colloca, ed è così complicato riformulare il mondo in maniera diversa, anche solo dinnanzi a noi stessi. È dura sognare un orizzonte alternativo cui affidarsi. 
Le volte in cui riesco a staccare la spina e a chiudere ogni imposta su queste considerazioni, i miei ricordi volano dolorosi verso Milo. Mi sono comportata da perfetta stronza nei suoi riguardi e me ne sorprendo tanto: non perché io sia una campionessa di moralità, ma è una persona a cui ho voluto un gran bene. E so quanto lui tenesse a me e al nostro sentimento, eppure ciò non è bastato. La mia quotidianità, zeppa di privilegi, non mi è stata sufficiente. 
L’altra idea martellante con cui mi addormento ogni sera è giustamente Jan: Jan che non sarà mai al mio fianco, Jan che non so che fine abbia fatto. Abbracciando il cuscino, mi trovo a sperare che tutto vada bene, che possa condurre una vita felice a modo suo. Eppure, mentre lo immagino che dipinge, finalmente salvo alla luce del sole, gli Ausiliari della camerata staccano la corrente senza alcun preavviso; così anche il mio buio interiore si infittisce… ed è tanto denso da assorbirmi, da inghiottirmi.


-


Grazie per aver viaggiato assieme a me.
Questa parte della storia termina qui, ma il cammino è ancora lungo: nuove pagine e nuovi intrecci vi attendono all’orizzonte.
Il seguito arriverà… e porterà con sé sorprese che nemmeno io potevo prevedere.  
Continuate a seguire Liz nelle sue avventure: non ve ne pentirete 💞



martedì 29 luglio 2025

33. LA PAROLA ALL'AUTORE

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Quando immagino una parte di storia - o semplicemente condivido un pensiero su questo blog - muovo sempre da un’intenzione ben precisa: nella mia mente è ovvio il significato da comunicare, è chiaro l’indirizzo a cui condurre chi mi segue. Le parole scaturiscono da una sorgente che sembrerebbe appartenere a me - e a me soltanto.
Ma la faccenda, qui, non è affatto univoca: chi interagisce con il testo mette in circolo le sue vibrazioni, diventa artefice congiunto nel processo creativo. Il lettore, portando con sé altre possibili interpretazioni, coglie messaggi che io non avevo previsto, che non avevo immaginato neppure per scherzo… o magari sì, ma senza saperlo?
Ed è qui che il chicco da me seminato germoglia, che la pianta ramifica ben oltre le aspettative: l’inchiostro sulla pagina bianca si arricchisce durante l’incontro con il lettore - perché chi legge, con la sua sensibilità, il suo bagaglio, la sua forma mentis, conferisce un’impronta personalissima al testo già nato.
Le frasi si ampliano ed evolvono in questo scambio, la scrittura vive, si nutre e si rigenera: ogni volta che qualcuno accede a un brano e lo interpreta, aggiunge anche qualcosa di suo. E così il cerchio si allarga, in uno sviluppo privo di qualunque confine, grazie al quale costruiamo un ponte per giungere alla meta insieme.

Quindi grazie. A chi legge, a chi condivide, a chi risuona. Anche a chi mi sorprende. 
Perché tutto questo non lo creo da sola 🩷


venerdì 25 luglio 2025

32. CAPITOLO QUATTORDICESIMO

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Ogni primo sabato del mese io e le girls facciamo un giretto al mercato delle spezie, un luogo accattivante e un po’ esotico in cui comprare frutta secca, diffusori per ambiente dall’aroma particolare, elaborate rose essiccate – la merce più simile a una creazione d’arte che il nostro quartiere sia in grado di offrire. Il mercato è sempre aperto, perfino per le feste comandate, ed è allestito in una struttura riparata che risale agli inizi del secolo scorso, ideale per spendere qualche ora tranquilla anche quando il cielo è fosco e il vento fischia insistente.
Lunetta, famosa per essere la più spendacciona, attende ogni volta trepidante di varcare la soglia delle sue botteghe preferite, e rincasa immancabilmente con le braccia cariche di sacchettini contenenti curcuma, zafferano e noce moscata, noti per le loro qualità benefiche; ma oggi, quando ormai le lancette dell’orologio segnano le dieci e trenta e noi la stiamo aspettando da mezzora, una vocina interiore mi dice che le cose seguiranno un altro corso. Sabrina la cerca a più riprese sul cellulare, ma la sua costanza non viene premiata – se non dalla voce registrata che ci informa di come il telefono sia staccato e la persona non raggiungibile. 
Decidiamo di proseguire senza di lei. Passeggiando per i corridoi del mercato coperto, le ipotesi sull’assenza di Lunetta si fanno molteplici: è strano, in precedenza non è mai mancata all’appello. 
“Vorrà risparmiare e avrà deciso di restarsene a casa per non cadere in tentazione” dice Valeria, spruzzando sul polso il tester di un profumo al sandalo.
"Ma quando mai, risparmiare, figuriamoci! Lunetta ha le mani bucate. E poi, è gonfia di quattrini come un uovo.”
“Bah, sia come sia poteva fare lo sforzo di avvisare…”
Congettura dopo congettura visitiamo tutti gli stand a cui siamo affezionate, senza però venire a capo del mistero. Io preferirei non esprimermi, perché Lunetta è ormai materia delicata; ma le ragazze, invidiose del nostro stretto legame e completamente ignare degli ultimi accadimenti, mi invitano con insistenza ad esternare la mia opinione, mostrandosi stupite quando faccio spallucce.
"Strano, avrei giurato che di recente l’avessi vista almeno tu. L’ultima volta che ci siamo sentite ha sicuramente accennato alla sala prove, doveva avere appuntamento con Milo… e con te, o almeno così pensavo” fa Sabrina, e il suo tono compiaciuto non mi piace per niente, così come non mi va giù quel sorrisetto canzonatore. Decisa a fare buon viso a cattivo gioco, confermo che sì, certo, sapevo che si era fatta viva, ma che non avevo avuto la possibilità di raggiungerli. 
Le espressioni che mi circondano giurano che non le ho convinte affatto, ma le girls rimangono in silenzio perché non hanno la minima possibilità di smentirmi. E così il discorso muore subito, per mia fortuna, anche perché Sabrina si è già fatta distrarre dalle novità del suo rivenditore di fiducia, un anziano mago del commercio che sembra possedere tutte le tonalità di mascara esistenti sul pianeta; quest’uomo sa proprio il fatto suo, dopo lunga e vivace contrattazione non è solo la borsa di Sabrina ad aprirsi per lasciare che il portafoglio veda la luce. Ma il nuovo rimmel è un diversivo che esauriremo presto e io, avendo già avuto occasione di appurare che non sono un granché come racconta-balle, manovro in modo da ricondurre il gruppo sulla via di casa: so bene che un’indagine più approfondita da parte di queste due mi smaschererebbe all’istante.

Più tardi, mentre cammino sola e mesta lungo il viale, osservo le lampade già accese dietro vetri e tendine; la giornata è scura, sembra quasi autunno. Mi perdo a osservare gli appartamenti della città, indovinando quello che succede in ogni interno. Immagino una moltitudine di persone, gente di tutte le età, bimbi senza pensieri, vecchi al termine della loro esistenza, mamme indaffarate di ritorno dal lavoro, tutti con una peculiare vicenda da raccontare, e tutti, ma proprio tutti, molto più contenti di me. O forse sono semplicemente inconsapevoli, non vedono l’acciaio dietro cui sono rinchiusi: ma il risultato, alla fine, è il medesimo, sono liberi per il solo fatto di non conoscere la loro prigione. Mentre io, che ho osato chiamarla col suo nome, non riesco più a mettere il naso fuori dalle sue sbarre.

L’aria in tumulto che spazza la vallata ammassa in cielo nubi rigonfie di pioggia, gelandomi il naso e la punta delle dita. Ma il freddo che mi buca l’epidermide è niente rispetto alla lastra di ghiaccio che si è solidificata attorno al mio cuore, uno spesso strato di dolore nero come pece; non so davvero se riuscirò mai a rimuoverla.
Mentre salgo i gradini davanti al pub, avvisto ancora la bambina, avviluppata nei suoi panni scuri. Ha con sé un’espressione dura, sanguinante, e preferisco non avvicinarla neppure.

Appoggiata al banco del locale, invio un messaggio a Milo, intimandogli di raggiungermi. Non ho voglia di aspettare i suoi comodi fino a stasera, e lui non ha scuse per rifiutare: non salta mai la pausa pranzo, a meno di non essere a un passo da un concerto importante – e non è questo il caso.





lunedì 21 luglio 2025

31. LA PAROLA ALL'AUTORE

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Divieni ciò che sei
Viaggiare. Andare. Esplorare. 
Conoscere il mondo di fuori. 
Un weekend a Madrid, un ritiro in Oriente, un tramonto sulla spiaggia: cosa può esserci di più desiderabile?
Ma esiste un altro viaggio, celato e silenzioso, che non regala foto da postare né aneddoti da condividere davanti a una pizza. 
È un viaggio nel profondo, da intraprendere non per segnare nuovi traguardi sulla cartina, bensì per incontrare noi stessi.

Sull’argomento è stato scritto in lungo e in largo, e in ogni epoca: se ne trovano tracce nella filosofia, nella letteratura, in qualunque credo e in qualunque religione. Usando linguaggi differenti, le varie discipline convergono tutte verso lo stesso punto: scoprire l’essenza, accettare il volere superiore di una saggezza assai più alta della nostra.
E in effetti tutti noi, prima o poi, avvertiamo il bisogno di elevarci: sentiamo nel petto un bisbiglio, che si fa via via più tenace, e che ci chiede di allinearci a un progetto che l’anima ha fissato da tempo. Ci viene comandato, insomma, di divenire quel che già siamo
Può sembrare subordinazione, una chiara rinuncia al libero arbitrio; ma si tratta, in realtà, di un abbandono consapevole, di imparare a fluire con la vita anziché resisterle. Si tratta di fidarsi davvero… per giungere finalmente a casa.

Anche la religione cristiana, in molti momenti, ci mostra questa dinamica. 
Quando si parla della resurrezione di Lazzaro, ad esempio, non si sottolinea soltanto il miracolo compiuto da Gesù, ma anche il risveglio a un’esistenza nuova.
Ancora più significativa è la costante enfasi di Cristo sulla volontà del Padre: non per annullare la propria individualità, ma per connettersi con un proposito divino che supera la dimensione egoica. Questa sottomissione non è debolezza né passività: è la massima forza. La frase Non la mia, ma la tua volontà sia fatta allude proprio a questo.
Gesù ci mostra che la vera libertà è abbracciare il proprio destino spirituale, e lo stesso fa Maria quando dice: “Eccomi, sono la serva del Signore”, manifestando un’adesione potente alla grazia che opera nell’intimo.
Cristo è una figura straordinaria, è il Maestro che ci dona l’insegnamento più prezioso: il richiamo alla scintilla divina e creativa che abita l’uomo.

Lo stesso vale per la religione musulmana, che ci invita ad affidarci all’ordine più grande di cui facciamo parte; questo abbandono implica resa e obbedienza completa al Dio unico. 
La parola Islam è legata ai concetti di pace e sottomissione, e la connessione fra i due termini è significativa: chi si arrende alla volontà di Dio trova equilibrio e serenità, perché smette di agire contro il flusso della propria spontanea natura.

Nella Divina Commedia, infine, rivediamo il medesimo concetto. Il viaggio nei regni dell’oltretomba è qualcosa in più rispetto a una mera visita all’aldilà: è l’allegoria del risveglio dell’anima, che compie il suo destino riconoscendo la propria identità. Mentre attraversa Inferno, Purgatorio e Paradiso, nel poeta avviene una trasformazione responsabile; la sua è un’ascesa simbolica e spirituale, che va oltre il significato letterale del testo. 
Dante si ribella, si smarrisce, ha paura: vorrebbe evitare il bosco oscuro e intricato che Virgilio gli indica, perché è l’ingresso in uno stato di caos e confusione. 
Ma l’attraversamento della selva è una prova fondamentale, necessaria a chi prende coscienza di sé e si ritrova dopo lo smarrimento. 
Tentare di sottrarsi non conduce a niente; la vera libertà si conquista smettendo di lottare e iniziando a nuotare nel senso della corrente. O, per metterla con l’autore, a soggiacere a maggior forza e a miglior natura. 


C’è chi mi ha tacciata di buonismo per aver cercato una matrice comune tra le tante visioni del mondo. Ma non si tratta affatto di questo: tento invece di riconoscere una radice condivisa, su cui poggia lo scibile umano nel suo complesso.
Magari le parole cambiano e i simboli sono diversi; ma alla fine è l’anima che detta legge. È lei a riconoscere con lucidità ciò che è autentico, al di là delle forme che scegliamo per esprimerlo.

Nota: questo pezzo deve molto alle idee di C.G.Jung e di Giorgia Sitta.





mercoledì 16 luglio 2025

30. CAPITOLO TREDICESIMO

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Non mi accorgo di come la mia mente sia confusa fino a quando, una mattina a colazione, Milo rievoca con nostalgia la tartare gustata qualche settimana fa al ristorantino sul molo. Lì per lì mi coglie impreparata: “Che tartare?” domando meravigliata imburrando il pane, e dallo sguardo che mi restituisce afferro la verità al volo: la chimica sta avendo la meglio sui miei neuroni. Mi osserva guardingo, poi cerca di buttarla sullo scherzo: “E su, che memoria corta che hai, al mare ti sei sparata mezzo chilo di tonno! Non so come fai a mantenerti tanto secchina.”
“Non era mezzo chilo, e comunque ne hai rubato la metà.”
“Io?”
“Tu” rispondo sprezzante, nel tentativo – vano - di mostrare noncuranza. Ma subito mi concentro sul piatto servito dal cameriere quella sera, per assicurarmi di visualizzarlo ancora; con un po’ di sforzo riesco a risentirne perfino il gusto. Delizioso. Rincuorata – e, a dispetto di tutti i suoi discorsi, noto che lo è anche Milo – inizio a passare in rassegna il resto, ricordi che mi premono molto più di una semplice cenetta romantica: il volto di mia madre poco prima di morire, il momento in cui un affascinante sconosciuto mi rivolse la parola al Temet Nosce, rivelandomi di essere il leader di uno dei gruppi della serata, la trepidazione per la prima presentazione organizzata in libreria dal mio precedente editore. C’è tutto, ogni pezzo del mosaico è al proprio posto, le facce, i gesti, le mie emozioni. Ma queste sono immagini secolari, tenaci, ormai parte radicata di me; ho il sospetto che i problemi riguardino piuttosto gli ultimi mesi. Rifletto un istante: con la capacità innata che ho di esporre gli eventi, forse basterebbe procurarsi un quaderno e buttar giù qualche riga, tanto per avere la certezza di non perdere per strada nessun particolare interessante. Ma accantono l’idea in fretta. Non posso essere sicura che rileggendo un diario proverei le stesse intense sensazioni di una volta, la potenza del ricordo è un altro paio di maniche: che tristezza accontentarsi di un’eco sbiadita! E ci sono cose che non saprei spiegare chiaramente: la voce di Jan, per esempio, come si può raccontare una voce sopra un foglio, l’impatto che ha su tutto il tuo essere? Nel pormi questa domanda, mi sovviene che forse già ora non rammento bene alcuni dettagli della sua persona: ha la barba, giusto? Oppure non ce l’ha? E i capelli sono lunghi veramente? Per il momento lascio perdere, intenzionata come sono a tenermi su. Ci penserò più tardi. Mi rivolgo di nuovo a Milo, che nel frattempo sta recuperando dalla mensola qualcosa di peso e assai ingombrante: è la sua preziosa scacchiera in marmo artigianale, costituita da pezzi talmente raffinati che il suo acquisto ha richiesto un permesso speciale. Gli faccio presente che non so giocare, ma lui ribatte che è tempo di imparare qualche mossa: “Ti ho spiegato cento volte le regole principali, ora vediamo se mi sei stata a sentire.” 
Gli sorrido riconoscente: vuol distrarmi dal pensiero di quelle dannate fiale e dalle loro conseguenze sulla mia persona. Non credo funzionerà, ma tentar non nuoce. Milo ha sempre la risposta giusta, ogni volta è lì che si occupa di me: che diavolo farei senza?

Nascosti sotto la coperta, ci esploriamo a vicenda; sciogliersi nel suo abbraccio è un passaggio dolce come al solito, ma stavolta, accanto alla passione, avverto un altro sentimento - una tensione, rigida e mal trattenuta, che stento a definire. A dispetto di tutto il nostro amore, è proprio lei la protagonista, è lei a fonderci assieme questa notte. 
Ancora allacciati, ci eclissiamo in un sonno agitato finché la pendola, dalla cucina, rintocca mezzanotte. 

In capo a un’ora mi sveglio ansante, come se avessi corso a perdifiato. Ho avuto un altro incubo, ho perfino gridato, ma tanto non sono di disturbo a nessuno: Milo, dovendo lavorare presto domattina, ha preferito tornarsene al suo appartamento e io giaccio sola soletta nel mio lettone. 
Mi alzo, premo l’interruttore della lampada sul comodino e mi guardo angosciata nello specchio. Poi osservo le mie mani, nella speranza che il vecchio trucco possa qualcosa contro la folle corsa del mio battito cardiaco. Poco a poco mi calmo e vorrei non richiamare le immagini del sogno appena interrotto, ma quelle si fanno strada dispotiche, come un nastro su cui è impresso il più osceno dei film, di cui la mia coscienza non perde alcun fotogramma. Era tutto così vivido: via dei Salici, lunga e ricurva, la fontana monumentale dagli spettacolari intarsi, l’espressione bonaria del Maestro mentre si rivolge agli studenti fra i colori accesi del parco. 
E poi Jan col suo mezzo sorriso, soprattutto Jan, intento al lavoro dinnanzi alla tela superba. Questo e altro ancora naufragava in una pozzanghera stagnante ai miei piedi, vermiglia e densa come sangue, in cui i ricordi si mescolavano col fondo fangoso fino a dissolversi del tutto. 
Sento la rabbia che monta, non riesco a sopportarlo, non tollero che l’incubo divenga realtà.
Mi precipito al comò, apro il primo cassetto, estraggo la scatola di fiale: le conto, ce ne sono ancora così tante da utilizzare! Troppe. Scorro frenetica il bugiardino, alla ricerca di maggiori informazioni, ma sulla questione “pipì” non è spiegato quasi nulla; si allude solo superficialmente all’aspetto rossastro delle urine, raccomandando caldamente di non darci peso. 
Rievoco le parole del Dottor Cautiverio: ha parlato di una sfumatura, non di uno scuro magenta, e quella sfumatura esiste già, è leggera ma al contempo evidente. E io so bene cosa bisogna fare: sospendere momentaneamente le iniezioni, ecco la scappatoia, per riprenderle a qualche giorno dalla prossima visita, così da mantenere pressoché intatte le mie memorie senza per questo compromettere gli effetti del pigmento contenuto in quell’odioso e assurdo medicinale. 
Gongolo davanti allo specchio per un po’, immensamente compiaciuta di me stessa: non è una trovata geniale? 
A dispetto dell’onda anomala che minaccia di travolgermi, scelgo di avanzare dritta sulla strada che mi è dato di percorrere. Sono io a condurre, dopotutto, io che imposto navigatore e direzione.


domenica 13 luglio 2025

29. LA PAROLA ALL'AUTORE

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Se vi state chiedendo da dove mi arrivi l'ispirazione per scrivere, la risposta alla vostra curiosità è semplice: dalle normali esperienze di ogni giorno.
A tutta prima può suonare buffo, poiché l’ambientazione in cui Liz e gli altri personaggi si muovono è distopica, lontana anni luce dalla realtà che conosciamo. 
Ciò nonostante, le radici delle vicende che racconto affondano puntualmente nel quotidiano, nel mondo variegato che ci circonda - fonte inesauribile cui attingere. È sufficiente una frase buttata là per caso ad attivare l’ingegno, a dar vita a protagonisti, sentimenti e situazioni di ogni genere. 
Il serbatoio del reale è un forziere ricco, che trabocca di inestimabili tesori: perché non approfittarne?
Talvolta, ma con frequenza assai minore, lo spunto narrativo arriva dall’universo onirico. I sogni, in qualunque veste affiorino alla coscienza, sono un campo fertile e imprevedibile: frammenti di visioni notturne, ancora ben impresse al risveglio, sanno trasformarsi in stimoli eccezionali per la creatività, riuscendo a sbloccare le ali della fantasia più intorpidita.
L’originalità risiede nel nostro vivere; che sia nelle ore di veglia, che sia durante il sonno… è la vita vera a mettere in moto le potenzialità del nostro genio. Basta cogliere i comuni (ma straordinari!) fenomeni di cui siamo testimoni nell’arco delle ventiquattro ore per rendercene conto: ogni alba è l’inizio di una nuova narrazione, senz’altro migliore delle precedenti❤





venerdì 11 luglio 2025

28. ESPANSIONI

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Sotto il nome Espansioni trovate quella parte di narrazione che segue le esistenze dei nostri personaggi, ma non compare nel testo originale; perché il mondo di Liz si apre su nuovi orizzonti...


Jan e il Maestro: due strade che si incrociano
Quando ormai, vista l’ora tarda, mi consideravo al sicuro, ecco che Liz si materializza sulla porta di punto in bianco: è chiaro come il sole che il Maestro le ha svelato il nostro confidenziale trucchetto - altrimenti non sarebbe mai stata in grado di introdursi nell’atelier dopo la chiusura.
Sopra il cavalletto troneggia “Oltre la Superficie”, il mio capolavoro, la tela che sento dentro con maggiore intensità; non potrò mai realizzare un altro pezzo tanto significativo, neppure in un milione di anni, neppure in un trilione di collezioni. Questo dipinto è me, me spiccicato, la mia intera vita confessata in poco più di un metro quadro. Sconvolto, allungo una mano verso la ragazza, con la speranza di blandirla, di zittirla, di bloccare quel grido scellerato che potrebbe tradirmi irreparabilmente. Sono nudo in questo momento, un povero animale ferito e vulnerabile; ma, con mio immenso sollievo, lei non apre bocca. Però mi osserva, rivolgendomi un’attenzione tutta nuova. Appare più rispettosa, adesso che intuisce chi sono davvero, e una calda ondata di piacevole orgoglio mi pervade dalla radice dei capelli alle punta delle scarpe da lavoro.
D’un tratto, un ricordo mi si accende davanti agli occhi, una scena avvenuta diversi anni fa, ma ancora vivida in tutte le sue caratteristiche…

*

… mi trovo in riva al grande lago della Zona Cinque, con in mano un carboncino di fortuna, solo come Venere affissa all’orizzonte del tramonto. Convinto che nessuno potrà sorprendermi in questo luogo isolato, disegno frenetico su una banda di cartone, strappata malamente da un vecchio contenitore del latte. Sono così rapito dai miei traffici personali che non rilevo la presenza appena giunta alle mie spalle; è solo al suo colpo di tosse che capisco di avere compagnia. Allarmato, sobbalzo e mi volto, pronto a scontrarmi con le Squadre di Rimozione. Pronto a schizzare via, se la situazione dovesse volgere al peggio. Pronto a chinarmi per afferrare un sasso e lanciarlo al mio assalitore, se si arrivasse allo scontro fisico. Ma dietro di me c’è un innocuo, affabile signore di mezza età, un tizio eccessivamente rotondetto per corrermi dietro - e senza dubbio incapace di sovrastarmi fisicamente. 
Gli lancio un'occhiata colpevole, meditando comunque di darmela a gambe; ma quello fa roteare il bastone da passeggio e lo punta  contro il mio petto, con la speranza di bloccare la mia fuga imminente: “Giovanotto” mi apostrofa, con voce niente affatto minacciosa, “da dove esce il carboncino che nascondi maldestramente dietro la schiena?” 
Il suo sguardo è paterno e cortese, e io, abbandonata ogni logica, mi azzardo ad annunciare la verità a questo sconosciuto: “È opera mia… un processo al quale mi sono dedicato per giorni. All’inizio continuavo a bruciare il legno all’aria aperta, e i primi tentativi si sono rivelati un fiasco totale… ottenevo soltanto cenere. Ma quando ho pensato di bruciare i rametti all’interno di una latta per biscotti in disuso, il risultato è cambiato al cento per cento” concludo, soddisfatto dell’esito dei miei esperimenti. Poi, spinto dalla sete di condivisione, aggiungo: “I carboncini migliori si ottengono dal salice: lasciano un segno opaco e uniforme, sono leggeri e maneggevoli, si sfumano senza fatica! Ma soprattutto” e qui abbasso i toni, improvvisando un’aria complice, “tracciano linee della lunghezza che desidero.”
Lo scorso inverno, quando già ero stato inquadrato in Classe Otto, ho cercato di fare uno schizzo con la matita per occhi di mia madre. Il sogno di accedere al Rango Cinque era evaporato per sempre, ma io, ostinato più di un mulo, non volevo gettare la spugna. Sebbene i block notes nel nostro cassetto mostrino un taglio idoneo agli Ausiliari - parlo di insulsi rettangolini, buoni per appuntare la lista della spesa - speravo di arrangiarmi: mi sarei adattato a ritrarre minuscole illustrazioni monocromatiche. 
Ma non avevo fatto i conti con la tecnologia impiegata per produrre il kajal della Classe Otto: se tenti di tracciare una linea più lunga dello standard tollerato, il tratto svanisce come per magia, proprio come farebbe l’inchiostro simpatico; peccato che, in questo caso, il segno non torni mai visibile, neppure ricorrendo al più ingegnoso degli espedienti. Un pizzico di make up è consentito anche da noi, ma sempre in quantità irrisorie; non serve un rigo che tocchi lo zigomo per sottolineare il nostro sguardo… e, soprattutto, non devono diffondersi lapis improvvisati fra le nostre file! Le Autorità non fornirebbero mai a chi non è pittore i mezzi per realizzare arte visiva. 
Così quel giorno il Sistema era riuscito a piegarmi - ma non ero ancora sconfitto del tutto; e, finalmente, oggi ho in pugno il modo di aggirare la regola.
Non ho motivo di raccontare queste dinamiche al  rubicondo signore che mi sta davanti; ne è già a conoscenza. Ma contro ogni buonsenso so che posso fidarmi; sento che questa persona mi aiuterà, se appena ci riesce, che mi richiamerà alla vita vera. Perché mi vede come un individuo e non come un tassello all’interno di un Sistema che ci spersonalizza.
La parte rifiutata e sepolta di me potrà finalmente salvarsi dai lacci di chi desidera trattenerla nell’ombra.








 

   





martedì 8 luglio 2025

27. CAPITOLO DODICESIMO

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I giorni sul calendario passano a rilento, ma comunque scivolano via, e in men che non si dica mi ritrovo nuovamente alla scrivania del Dottor Cautiverio. 
Mi sono fatta grandi beffe della prescrizione che mi aveva fatto, ma sono stata abbastanza sveglia da procurarmi il farmaco, di cui posso produrre scontrino e fialette opportunamente svuotate. Ho con me pure il campione richiesto, se crede che stia assumendo qualcosa di illecito posso provare che ha preso un granchio. Controlli pure quanto vuole.
Lui mi osserva, risparmiandomi la sfilza di domande a cui mi aveva sottoposta settimane fa. Ha però un’aria scettica che non comprendo; è evidente che ho toppato in qualche particolare nel mettere in piedi la mia commedia. Mi sa che non sono poi la gran volpe che immaginavo.
“Cara signorina” esordisce con glaciale cortesia, “se si fosse attenuta alla cura come dice, l’urina all’interno della provetta sarebbe di una bella sfumatura rossastra. Ma lei non può saperlo, perché è chiaro come il sole che non si è degnata di leggere il foglietto illustrativo; in caso contrario, avrebbe almeno tentato di truccarla un po’.”
Idiota, mi rimprovero mentalmente, quanto sei idiota! Il dottore dice il vero, non ho mai aperto quel foglio; ma come potevo sospettare che uno degli effetti di quella roba fosse tingere la mia pipì? Non mi sognavo neppure che esistessero farmaci con un tale effetto. 
Mi passo la lingua sulle labbra e aspetto il resto trattenendo il fiato.
“Adesso le dico cosa faremo: siccome non sono cattivo, le darò un’ulteriore possibilità, a patto di non essere preso ancora per il culo. Basta con la sua sfacciataggine. Assuma la medicina e si ripresenti fra due settimane. Senza fregature, o coinvolgeremo il suo fidanzato. Buona giornata.”
Ciò detto, si avvia verso la porta, la spalanca e mi guarda con quei duri pezzi di granito che si ritrova al posto degli occhi; io mi faccio piccola piccola e scivolo fuori, spazzata via con fretta e disgusto manco fossi un insetto raccapricciante.

Guidando verso casa rimugino sulle parole del sanitario; il suo tono e la scelta delle espressioni assicurano che c’è poco da scherzare. Stavolta non sarò in grado di svicolare, come ignorare le sue disposizioni? La minaccia di coinvolgere il mio ragazzo – anche se non vedo a che titolo – mi turba enormemente. Devo mettermi in contatto con lui, avvertirlo. 

Aprendo la porta dell’appartamento, a ogni modo, scopro che sollevare la cornetta non è necessario: Milo mi ha preceduta ed è già là, in attesa, sprofondato nel pouf al centro del soggiorno. Le gambe mi tremano per il sollievo, non mi ero accorta di aver tanta voglia di saperlo al suo posto, di fianco a me: “Sei venuto.” 
“Sarei venuto dai confini della terra. So quando c’è bisogno di me. Com’è andata la visita?” chiede e io avrei voglia di sciogliermi in pianto, ma resisto alla tentazione; niente ipocrisie, per le mie miserie non ho che da incolpare me stessa. Adesso è giusto pensare a lui: “Ha detto che prenderanno contatto con te” dico, poi snocciolo tutto il resto parola per parola, fissandomi i piedi, troppo imbarazzata per sostenere il suo sguardo. Ma al termine del racconto lui rimane tranquillo – oppure nasconde l’agitazione dietro la maschera del giocatore di poker. 
“Calma. Calma” ripete, “nessuno verrà a cercarmi, ma è necessario che tu segua le disposizioni. Per il tuo bene” conclude, e ha su un cipiglio che non ammette replica. 
Mi affretto a promettere che non farò storie in futuro, che porterò a termine il trattamento “fino all’ultima boccetta” e Milo pare soddisfatto della mia sollecitudine. È tanto riconoscente al Dottore per avermi dato una seconda chance che quasi quasi lo considero magnanimo anch’io, eppure quella fiammella di ribellione che mi porto dentro non si rassegna a morire completamente: perché ricorrere a una dannata cura quando si è sani come un banco di sardine?
Esaminando la nuova scatola di fialette Olvido che Milo si è procurato, apprendiamo che il farmaco va somministrato ogni mattina a digiuno e che i suoi effetti non tarderanno ad arrivare – compreso un subitaneo miglioramento dell’umore, stando ai prodigi promessi dalle istruzioni. 
Milo si fa nuovamente avanti per le iniezioni e questa volta non posso non acconsentire. A puntura fatta, lui sembra alzarsi da un letto di spine; ampiamente rilassato, mi prepara una colazione da regina e propone una visita alla nostra biblioteca preferita.
La biblioteca si trova in centro, all’interno di un ex convento situato su più piani, dall’ultimo dei quali si gode una vista spettacolare: gli eleganti palazzi sono a portata di mano, ti illudi di poterli toccare con un dito, e di recente hanno pure aperto una caffetteria, con postazioni ad hoc per studenti e pratiche poltroncine per lettori più attempati. Quest’edificio conserva volumi a migliaia, alcuni molto antichi, altri di ultima pubblicazione; per due come noi la permanenza qui è un paradiso, spesso spendiamo ore tra i vecchi scaffali carichi. Mentre mi attardo davanti ai classici, Milo sparisce nel reparto musicale, per riemergerne dopo qualche tempo con diversi tesori fra le braccia. Mi mostra trionfante le novità che ha scovato, una inesauribile pila di libri su cui troneggia una raccolta delle mie, e io so che questo è un messaggio, il cui codice non è arduo da decifrare: non ti servono modelli da seguire o vite altrui da invidiare, sei già ricca così come sei. 
Stringendo forte i miei racconti, si avvia al banco con la tessera del prestito già fra le dita, poi torna da me, proponendo di recarci giù al chiostro: là potremo leggiucchiare tranquilli per un po’, la vegetazione fitta a farci da schermo contro il sole feroce di mezzogiorno. 

Finiamo per trascorrere ore seduti su una delle antiche panchine in pietra, lui immerso per la centesima volta nelle mie novelle, io con matita e blocchetto pronti all’uso. La serenità di questo edificio ha fatto nascere in me l’improvvisa urgenza di scrivere, ma ogni volta che attacco una frase sono costretta a tornare indietro e cancellare: dalla mia penna non escono altro che allusioni al quartiere degli artisti, ma so di non potermi permettere il più piccolo accenno. Oh, se solo esistesse un luogo, fuori dallo spazio e fuori dal tempo, una piccola stanza invisibile in cui poterli incontrare di nuovo! Ne varcherei la soglia immediatamente, anche se si trattasse di un unico pomeriggio, di poche e fugaci ore da vivere insieme. Ci sono mille cose che vorrei condividere, e altre mille che vorrei spartissero con me. Ma un posto simile non l’hanno ancora inventato, perciò continuo testarda a pensarli, a pensarli forte e poi più forte, perché… chi lo sa? magari in questo modo sapranno quanto desideri vederli, magari in questo modo riusciranno a sentirmi.


venerdì 4 luglio 2025

26. LA PAROLA ALL'AUTORE


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Zona di Comfort e Crescita Personale: perché Restare al Sicuro non ci aiuta a Evolvere
Non sarà che il nostro Milo confonda il buonsenso con la paura? Che chiami virtù ciò che, in fondo in fondo, è mero adattamento? Scuote la testa e si ritiene nel giusto, convinto di doversi proteggere: ma proteggere da che cosa? L’ombra che lo minaccia è davvero là fuori? 

La zona di comfort è quel terreno fatto di comportamenti e situazioni familiari in cui tutto è sotto controllo, in cui ci sentiamo al sicuro. È l’appiglio che garantisce la nostra salvaguardia. Si traveste da spazio idilliaco: zero stress, zero rischi, zero dispendio di energie. La zona di comfort non ammette fattori ansiogeni, per questo la difendiamo con le unghie e con i denti; ma proprio qui sta la fregatura, perché non genera nemmeno spazi per la crescita personale.
Per apprendere è necessario aprirsi alla sfida, al cambiamento, all’ignoto; è importante sviluppare nuove abilità e nuove prospettive, imparare a essere meno rigidi, meno innamorati del nostro dolce rifugio. Per la cronaca, non sto facendo lezione dall’alto delle mie competenze… al contrario, condivido la mia esperienza dalla base su cui mi vorrebbero livellata timori e titubanze!



Angoli di Conforto

Immobile

io.

Immobili

le sbarre.


Proteggono

me.

Proteggo

io loro?


Racchiudono

me.

Racchiudo

io loro?



*


Ferma

Al sicuro.

Stai sulla riva.


Se non ti immergi.

Asciutta, perdi.

I tesori del fondale.


Stai al sicuro.

Sulla riva.

Ferma.



*


Il cappio

si scioglie.

Il gancio

si spezza.


Si espande

il cerchio.

Si sfuma 

il limite.


Un’orma

sul terreno.

Appare oltre

il rifugio.


E infine, una precisazione: in ambito letterario, la mia passione è la prosa. Quando si parla di scrittura, la prosa è la mia voce naturale - con i suoi tempi, le sue pause, il suo largo respiro. Eppure talvolta, anche se non diventa mai la norma, un’emozione mi scatta dentro, priva della solita struttura ben articolata che mi ha fatto compagnia in mille racconti. E io allora, invece di fare resistenza, acchiappo carta e penna per buttare giù una manciata di righe, fotografando in modo circoscritto la mia immagine mentale. 
Questi versi, che mancano di qualsiasi metrica, non possono definirsi poesie nel senso classico del termine; ma, nella loro imperfezione, riescono tuttavia a parlare per me. Esattamente come in questo caso. Però non prendeteci l’abitudine, eh? 

Un enorme grazie a voi che mi seguite con interesse e partecipazione!❤






















martedì 1 luglio 2025

25. ESPANSIONI


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Sotto il nome Espansioni trovate quella parte di narrazione che segue le esistenze dei nostri personaggi, ma non compare nel testo originale; perché il mondo di Liz si dirama in modi inaspettati..


C'è la luna a brillare alta nel cielo, immobile sopra le tegole del mondo; tegole addormentate, tegole impaurite - tegole incapaci di guardare fuori da se stesse. 
Ma il piccolo Milo, almeno lui, è ben sveglio; vede tutto in chiaro, come un film proiettato sul grande schermo, sebbene le luci dell’abitato risultino spente. Perfino i lampioni lungo la strada proiettano un alone meno intenso del solito, ma il bambino non se ne stupisce; sa che, per agire indisturbate, le Squadre di Rimozione creano apposta una fitta penombra in simili occasioni.
Ma quella sorta di tenebra funge anche da segnale: è un codice, per raccomandare ai cittadini disciplinati di non muoversi da casa, di badare agli affari propri. Tira aria di guai, ammonisce quel segnale.
Milo, però, non può semplicemente occuparsi del suo orticello: questa notte le Squadre colpiranno le loro stanze, verranno a prendere sua madre - che ha lanciato una sfida personale al Sistema e alle sue leggi. Per chi si espone quanto lei, la pena prevista è massima: l’attende la reclusione, forse a vita, e Milo sa che difficilmente avrà la chance di abbracciarla ancora.
Si raccontano un sacco di aneddoti sulla Struttura, molti plausibili, alcuni insensati, altri difficili da incasellare. Eppure, di una cosa Milo è più che certo: se perdi lo status decretato dalla Commissione, non c’è alcun modo di riaverlo indietro. Se vieni rimosso dalla Zona cui appartieni, non troverai grazia sufficiente a riammetterti tra le mura cittadine.
Il bambino vorrebbe urlare, abbandonarsi ai lamenti, strattonare la gonna della madre per obbligarla a restargli accanto… ma non fa nulla di tutto ciò. Il padre lo ha istruito a dovere: “Se ti lasci prendere dal panico, faranno del male anche a noi. Sii forte. Sarai un ometto coraggioso, non è vero, tesoro mio?”

*

Di regola, quando gli interventi delle Squadre prendono di mira madri con giovane prole, le Autorità provvedono a coprire il buco, inviando al domicilio in questione un genitore surrogato; ma il padre di Milo non ha la forza di compilare il modulo, e pianifica in solitaria un’esistenza differente per sé e per il figlioletto. Entrambi recitano il nuovo copione senza smarrimenti, fingendo che gli ultimi fatti siano piovuti su teste diverse dalle loro, e adattando la routine domestica al recente ménage familiare. 
Per un tacito accordo, Milo non spenderà mai una parola sull’accaduto; ma il sentimento offerto alla donna che un tempo asseriva di amarlo inizierà a mutare faccia. L’affetto cieco del passato svanirà presto, cedendo il posto a un bruno risentimento, solcato da spesse venature tossiche: perché tante imprudenze quando bastava un po’ di cautela? Perché chiedere di più quando la vita non mostrava una grinza? Dov’era andata a cacciarsi la sua tipica impronta docile e accomodante? Neppure l’iniziale declassamento era servito a farla ragionare: aveva preferito l’arresto alla solida normalità delle loro giornate. 
A queste considerazioni, Milo scuoterà il capo ogni volta - soddisfattissimo, invece, del proprio buonsenso: allineato alle politiche del Sistema, comincerà a giudicarsi addirittura virtuoso… consapevole che lei, avventata e incontentabile, chiaramente incurante di quanto poteva capitare a lui, non ha esitato un secondo a voltargli le spalle.


sabato 28 giugno 2025

24. CAPITOLO UNDICESIMO

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Prima che me ne accorga arriva il trentesimo compleanno di Lunetta, e io e le girls organizziamo una vera e propria battuta di caccia per scovare un luogo memorabile in cui organizzare una festa di tendenza. La scelta cade su un’antica colonica a tre passi dalla città, posto ideale per beffarci del caos dei viali senza sentirci troppo isolati. 
Lo so, Lunetta avrebbe optato per una notte brava in discoteca, ma io e le ragazze siamo andate ben oltre: è stato ingaggiato un barista che sarà con noi fino in fondo, un tecnico che si occupi dello spettacolo pirotecnico, e abbiamo il permesso di trattenerci fino al mattino se lo riterremo opportuno – non vogliamo trovarci ubriachi al volante. Facciamo il consueto giro di telefonate, ci scervelliamo per indovinare cosa la nostra amica desideri in regalo – c’è chi propone il solito profumo, chi rilancia con un buono sconto da sfruttare in libreria, chi pensa a uno stock di prodotti per la pulizia della sua adorata automobile. Forse ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo, ma trent’anni si compiono una volta sola; è un traguardo importante, da celebrare come si deve. Ero furente con Lunetta e una parte di me lo è ancora, ma non permetterò che qualche ruggine di poco conto rovini l’evento. 
A dirla tutta sono un po’ nervosa. È la prima occasione in cui ritrovarsi tutti assieme, e io non ho nemmeno accennato a Milo che sono al corrente delle loro confidenze; però ho prudentemente messo in chiaro che del mio incontro col Dottor Cautiverio non deve essere informato nessuno.
Quando arriviamo è ancora presto, perciò ho il tempo di ritoccare il trucco mentre lui si assicura che ogni cosa sia in regola. Col passare delle ore il posto si fa sempre più affollato e verso le nove corriamo tutti a nasconderci, abbassiamo le luci e attendiamo l’ignara protagonista della serata. Quando Lunetta, attirata qui con una scusa banale, fa il suo ingresso nella sala grande, esplodiamo in un boato ruggente che la sorprende e la delizia al contempo. Tecnico e barista si accontentano di fischiettare, non potendo intonare “tanti auguri a te” assieme a noi; poi cominciano gli scherzi all’indirizzo della festeggiata: “Scommetto che non sei più tanto afflitta dall’invecchiare, eh?”, e lei è costretta ad ammettere che l’organizzazione ha dell’incredibile; è raggiante come una bimba. 
Di regola non amo ballare, ma non so resistere alla pista allestita sotto le stelle; ben determinata a ritrovare l’affiatamento che avevo con Milo, mi lancio in un twist scatenato strizzandogli l’occhio con intenzione, e lui mi segue a ruota. A ogni ballo ne succede immediatamente un altro fino a quando, fradici di sudore, ci avviamo al bancone improvvisato per concederci un drink.
Sorseggio ansante il mio bloody mary – rigorosamente con tequila, niente vodka per i miei gusti – quando Lunetta si materializza dal nulla e prende posto vicino a me sulla panca. "Serata fantastica, non so come farò a ringraziare tutti.” Si sventola un po’ con la mano, poi aggiunge sottovoce: “Perdonami per l’altro giorno, vuoi?”
Io sorrido, finalmente libera da un peso: “Ma certo, pietra sopra.”
Così si alza, nuovamente diretta verso la pista da ballo, io afferro Milo per un braccio e lo tiro a me con forza: “Restiamo anche per la notte? Il posto è immenso, non dovremo lottare troppo per un po’ di privacy.” Lui mi prende in parola, esaurisce l’ultimo shottino, mi solleva e mi carica in spalla, avviandosi verso la scala che conduce al piano superiore. Io batto radiosa le mani nel tumulto: scintille in vista.

Quando mi sveglio, con un leggero mal di testa e un filo di nausea, intorno a me è buio pesto. È notte fonda, tutti sono saliti a dormire, almeno a giudicare dalla quiete dell’ambiente. Cerco Milo a tentoni sul materasso vicino al mio e mi accorgo di essere rimasta sola, ma non mi preoccupo: sarà certamente alla toilette, dopo i fiumi di birra che si è scolato! Mi giro sull’altro fianco, sperando di risprofondare nel sonno senza che la camera ondeggi troppo, ma qualcosa cattura la mia attenzione: c’è qualcuno in corridoio, sento i bisbigli nell’oscurità. Chi può essere? 
La risposta arriva qualche minuto più tardi, quando Milo rientra in camera e il ticchettio dei passi del suo interlocutore si allontana in fretta; altro che bagno, era lui là fuori! E in compagnia di Lunetta per di più, riconoscerei la sua andatura fra mille. Cos’hanno adesso da confabulare?
Milo ha qualcosa in mano, qualcosa di piccolo e scuro che posa sul mio comodino senza fare rumore, qualcosa di poco visibile ma maledettamente somigliante al mio cellulare.
Umiliata e incredula non so se alzarmi e affrontarlo o continuare a fingere di dormire: come ha osato, e dopo che gli avevo chiesto discrezione! E quella vipera, invoca perdono per poi pugnalarmi alle spalle? 
Nei giorni seguenti una miriade di dubbi assedia il mio cuore: era la prima volta in cui il mio ragazzo mi controllava? Avranno certamente letto i miei messaggi, ma quali? Perché?
Mi torturo al pensiero che, quella notte, possano avermi nuovamente cercata dalla Zona Cinque; Milo potrebbe aver intercettato la chiamata, decidendo che sto meglio senza ulteriori notizie. 
Mi balocco con l’idea di contattare Jan io stessa, ma ho troppa paura di esporlo a un pericolo: finora ho gettato la prudenza al vento, che succederebbe se le linee telefoniche venissero tracciate? 
Non so come agire con Milo, non so se cercargli delle attenuanti oppure chiuderlo all’angolo. Mi arrovello per capire cosa lo spinga a comportarsi così: la gelosia? Un eccesso di ansia nei miei riguardi? O semplice timore per se stesso? Forse è proprio questo il problema: dopotutto, sapendo quello che sa e non correndo a denunciarmi, finirebbe di certo in cima alla più nera di tutte le liste.

Subito dopo la festa Milo si defila in sala prove; a sentir lui è per un impegno improvviso, ma il mio istinto femminile la sa più lunga. Mi sta evitando, ecco la verità, forse per rabbia o forse per paura, e devo ammettere che una parte di me è contenta così: la lontananza allarga la prospettiva, chissà che questo interludio non mi aiuti a sbollire un po’. Anche Lunetta è svanita dai radar e pure in questo caso non me la sento di sollecitare un incontro che finirebbe da schifo. 
No, meglio tentare nuove strategie per tenersi occupati. Che delizia sarebbe andare al lago per due bracciate, ormai la stagione lo permette, che beatitudine calarsi nella cornice verde di quelle fresche acque! Sospiro. Le spensierate nuotate estive risalgono a quand’ero bambina, sono un’altra delle mille cose che ho perso in seguito all’Inquadramento: i soli impianti sportivi presenti da queste parti sono destinati alla riabilitazione, non c’è verso di allenarsi un po’ se non con la lesione di un menisco! Alla sola idea la mia depressione si fa ancora più abissale. Zero atleti in Zona Quattro.
Perciò cerco di non pensare a niente, cerco di non indugiare sulla scatola di lenti a contatto che il mio ragazzo dimentica sempre sul tavolo, accanto alla cenere del suo tabacco, ed evito le tisane allo zenzero che di solito condividiamo, nella segreta speranza che lui stia facendo lo stesso, che accusi la mia mancanza almeno un poco.
Piuttosto, mi tuffo nel lavoro. In ufficio, benché taciturna, riesco ad essere affabile come al solito, e grazie al cielo Daria si comporta da persona discreta, intuendo che desidero solamente starmene in pace. 

40. CAPITOLO DICIOTTESIMO

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